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Lo sport nella Germania nazista, tra adesione e dissidenza (Laura Fontana)

Esistono numerosi studi dedicati all’utilizzo dello sport da parte del regime nazista come strumento di propaganda e come mezzo per “addomesticare” le masse, abituandole alla violenza (l’attività fisica è intesa innanzitutto come preparazione militare) e all’obbedienza. In tale ambito, la Germania di Hitler non inventa nulla, basti pensare all’enorme influenza esercitata dalla politica sportiva promossa dal regime fascista di Mussolini sul Führer e sulle élites naziste.

Per i governi totalitari ed autoritari (ad esempio il regime di Vichy), le competizioni sportive internazionali rappresentano un’opportunità straordinaria sia per rafforzare la coesione interna dello Stato, vale a dire il senso di identità nazionale del popolo, sia per dimostrare agli altri Paesi la propria forza e la propria superiorità. In effetti, quale migliore esempio della vitalità e della salute di un governo che realizzare delle vittorie sportive davanti ad una platea internazionale?

Tuttavia, la politica sportiva del Terzo Reich ha una specificità che la differenzia da quella degli altri governi totalitari e che deve essere analizzata per comprenderne le conseguenze per il destino dei suoi atleti. Occorre mettere in luce quel legame concettuale e politico strettissimo che unisce il concetto di sport, cioè di attività fisica, a quello di corpo. Il nazismo non intende mai il corpo come corpo dell’individuo, ma sempre riferito ad un’entità collettiva, il Volk (popolo inteso in senso etnico-razziale). È il Volkskörper, il corpo sociale, il corpo della nazione Volksgemeinschaft (comunità nazionale) che deve essere mantenuto in buona salute e fortificato, temprato alla fatica e alla sofferenza, per dare dimostrazione di superiorità razziale, ma anche per rigenerare la razza stessa. Il celebre slogan nazista “Dein Körper gehöhrt dir nicht!” (il tuo corpo non ti appartiene) ci fornisce un esempio illuminante.

Se mantenersi sani e forti è un dovere patriottico di tutti i cittadini tedeschi “ariani”, tale dovere non può che essere ancora più pressante per gli atleti del Reich, incarnazione dell’uomo nuovo nazista.

Solo interpretando correttamente l’uso dello sport nella Germania di Hitler si riesce a comprendere il processo di trasformazione che investe gli sportivi tedeschi di sangue “puro” (ovvero solo gli “ariani”), elevandoli al rango di eroi e semidei, ma anche a comprendere il livello di pressione psicologica e di violenza fisica cui vengono sottoposti. Lo sportivo del Reich è allenato a superare la soglia del dolore, della fatica e della paura, ha il dovere di vincere perché la vittoria è la prova della sua appartenenza alla razza eletta. La perdita sul campo sportivo è un disonore che si traduce in un’umiliazione pubblica e collettiva per l’intera nazione (Volksgemeinschaft), perché lo sportoccorre tenerlo ben presente – per il nazismo è Lebenskampf, lotta per la vita.

Metafora del soldato invincibile e personificazione dell’uomo nazista perfetto (o del perfetto “ariano”), il campione sportivo del Reich attira su di sé tutte le aspettative di un regime che ha bisogno del corpo dell’atleta per esibire la prova della propria superiorità biologica.

Ci fu resistenza negli ambienti sportivi tedeschi di quegli anni?

Tralasciando l’ambito degli ambienti sportivi comunisti e cattolici che richiedono una lettura differente, possiamo dire che nella Germania degli anni Trenta lo sport non costituì un’eccezione alla regola. Anzi il mondo sportivo tedesco, proprio per l’utilizzo propagandistico dell’attività fisica promosso dal regime, si dimostrò particolarmente influenzabile e disponibile ad aderire al nazismo. D’altro canto, gli atleti “non ariani”, vale a dire innanzitutto gli ebrei, furono espulsi da tutte le federazioni sportive fin dalla primavera 1933 proprio in virtù di un’adesione massiccia al regime, ovvero per decisione spontanea delle stesse federazioni, senza che vi sia stata la necessità di promulgare una legge specifica.

Troppo spesso tendiamo a dimenticare che il nazismo non fu solo repressione e violenza, ma per la maggioranza della popolazione tedesca fu innanzitutto fascino, seduzione e consenso, per lo meno nei primi dieci anni di governo.

Questo panorama di una società tedesca incline al nazismo e facile da nazificare, non deve impedirci, tuttavia, di individuare anche all’interno di una massa sostanzialmente vicina (o indifferente) al regime ambiti di resistenza meritevoli di essere analizzati. Resistenza, però, nel senso promosso dallo storico Martin Broszat negli anni Settanta, ovvero di Resistenz, di resistenza passiva all’indottrinamento e alla manipolazione, di dissidenza e di disobbedienza civile.

È in quest’ottica che va messo in luce il destino del tutto eccezionale di due grandi campioni internazionali dello sport come il ciclista Albert Richter e il pugile Max Schmeling, entrambi tedeschi e considerati “ariani” dal regime, che riuscirono a mantenere una certa distanza dal nazismo, compiendo anche scelte coraggiose in nome della propria coscienza.

Sono due storie completamente sconosciute all’opinione pubblica, studiate e diffuse in Germania solamente negli ultimi anni (la prima biografia tedesca di Schmeling esce nel 1998, quella di Richter nel 2001) ma che rivestono un’importanza particolare proprio perché gettano una luce di speranza su di un periodo contrassegnato dalla sottomissione e dall’obbedienza, dalla paura e dall’opportunismo.

Né militanti antinazisti, né dotati di una coscienza politica o di una statura morale ed intellettuale di particolare rilevanza (entrambi i campioni seppero trarre il meglio dal successo e dai privilegi riservati alla propria categoria di sportivi e non presero mai posizione apertamente contro la politica razzista ed antisemita del proprio Paese), Albert Richter e Max Schmeling non vanno trasformati né in eroi né in santi, come invece accade per buona parte della letteratura sportiva di stampo giornalistico. E nemmeno nel simbolo di una resistenza organizzata alla dittatura nazista.

L’eccezionalità di Albert Richter e di Max Schmeling sta nell’aver incrociato la grande storia, nell’aver vissuto e realizzato la propria carriera in un’epoca eccezionale, un’epoca che li ha posti di fronte a dilemmi morali e che ha richiesto loro scelte importanti. Si tratta di grandi sportivi (dunque famosissimi anche al di fuori del Reich, con un’influenza notevole sul pubblico come avviene per ogni personaggio celebre ed amato) che seppero vivere anche controcorrente, rifiutando di lasciarsi manipolare completamente dal nazismo.

Sono i loro gesti, le loro scelte e le loro decisioni, come sportivi e come uomini, che li hanno resi grandi e meritevoli di essere ricordati con rispetto.

Perché dimostrano che dire di no era possibile anche nella Germania nazista.




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