Articoli

Leggi razziali

Dichiarazione sulla razza

Manifesto sulla razza

Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica   (Legge 29 Giugno 1939, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 2 Agosto 1939-XVIII, N. 179)

Regio Decreto Legge 9 febbraio 1939-XVII, n.126    (Norme ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica)

Regio Decreto Legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1531   (Trasformazione dell’Ufficio Centrale Demografico in Direzione generale per la Demografia e la Razza)

Regio Decreto Legge 21 novembre 1938-XVI, n. 2154  (Modificazioni allo statuto del Partito Nazionale Fascista)

Regio Decreto Legge 7 settembre 1938-XVI, n.1381   (Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri)

Regio Decreto Legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390    (Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista)

Regio Decreto Legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1539   (Istituzione, presso il Ministero dell’interno, del Consiglio superiore per la demografia e la razza)

Psichiatria e nazismo (Emilio Lupo)

Prima di iniziare voglio immediatamente trasmettervi le immagini – in stridente contrasto tra loro – evocate in me dal pensare ai rapporti tra psichiatria e nazismo:la prima,riportata dall’iconografia classica di Ph. Pinel che a Parigi scioglie il gigantesco e pericoloso marinaio dalle catene delle carceri e lo abbraccia,e la seconda delle camere a gas dei lager nazisti che,come riportato dalla propaganda scientifica dell’epoca, “liberano i pazzi dal peso di una vita di sofferenze incurabili”.

Se Pinel in quel momento, sulla scorta dei valori espressi dalla rivoluzione francese, fonda la psichiatria moderna, le procedure adottate dai nazisti aprono il campo ad aspetti e interrogativi fortemente inquietanti e, direi, decisamente ingombranti.

Senza soffermarmi ad esaminare i vari e diversificati orientamenti che hanno caratterizzato la psichiatria da circa duecento anni,voglio parteciparvi di alcune riflessioni:

La psichiatria all’inizio si pone come espressione dell’istanza di liberare l’uomo dalle sue “catene”, reali e simboliche. Essa dunque si fonda su istanze di libertà, che tuttavia vengono puntualmente rinnegate nel passaggio alle pratiche operative (oggi possiamo parlare di differenza tra exposed theory e theory in use). Ciò sembra dimostrato dalle innumerevoli situazioni che hanno costellato questi anni – da Pinel ad oggi – e che, nel periodo nazista, hanno espresso il massimo possibile di violenza attraverso la deliberata e programmata soppressione fisica.

È indubbio che la psichiatria possiede in sé stessa una radice distruttiva, la cui natura non può essere identificate tout-court con la radice positivistica che ne connota lo sviluppo dalla seconda metà dell’800 in poi.

La radice positivistica, identificando in un danno biologico – sia pure non ancora noto – le cause delle malattie mentali, ha sicuramente determinato lo sviluppo della cosiddetta utopia biologistica, la cui espressione pratica è rappresentata dalla costruzione di asili, sempre più numerosi e capienti, nei quali rinchiudere tutte le espressioni delle diversità, psicologiche e sociali, e sottoporle a “studio approfonditi” dei comportamenti e del soma, nell’attesa della scoperta del rimedio efficace e/o risolutivo. Non può essere sottaciuto che lo statuto scientifico al capo fa capo l’utopia biologistica ha decisamente scotomizzato i tanti altri aspetti dell’umano che sono stati, sino a qualche tempo fa, decisamente alienati dalla ricerca e dall’assistenza.Per essere chiari, il prodotto pratico dello statuto scientifico ha determinato il convergere dell’attenzione sulla malattia e non sull’uomo (malato), rendendo sempre più ristretti gli spazi assistenziali,sino a forme di vero e proprio abbandono, e allargando sempre più quelli della ricerca e della sperimentazione, sino a forme di spaventosi accanimenti terapeutici.

Ma essendo per fortuna più ampio e variegato il panorama degli interessi dell’uomo, lo sviluppo delle pratiche ed il contagio con altri saperi ha finito per promuovere la salute mentale, facendo così convivere le due anime della psichiatria, alle quali fanno capo molteplici modalità operative e di ricerca.

La prima è un’anima amica dell’ordine pubblico e quindi costituzionalmente costrittiva, violenta, repressiva, sino talora a meritare un’appartenenza al genere dei nazismi. La seconda, fortemente legata ai bisogni dell’individuo, tende invece al rispetto dei diritti del singolo e del suo futuro. Essa appartiene al gruppo delle libertà.

Lo scontro, che ancora oggi continua, con modalità sempre più raffinate, ci dice della grande attualità del tema che andiamo ad affrontare in questa importante assise, per l’appunto i rapporti tra la psichiatria ed il nazismo e che potremmo anche titolare dei nazismi e delle psichiatrie.

Voglio pertanto dire subito che nell’affrontare il tema centrale di questa giornata, mi sono apparse non poche – e di certo non fortuite – le connessioni, le correlazioni e la reciproca funzionalità tra il nazismo e la psichiatria di quegli anni. Tentiamo, perciò, di soffermarci sulle loro caratteristiche predominanti, così come sono state percepite, interpretate e vissute dalla gente.

Il nazismo rappresenta il punto più alto del soffocamento dei diritti, della sopraffazione, della totale violenza, della pura ferocia.

Il pensiero comune, attraverso la psichiatria dell’epoca, è come se abbia trovato nell’ideologia nazista (e affini) un substrato politico-culturale, un alibi per rendere operativo il vissuto negativo nei confronti della diversità.

La psichiatria, che già si presentava fortemente affiliata all’ordine pubblico e da essa giuridicamente dipendente, nutrendosi delle tecniche della contenzione e della separazione anche attraverso l’uso del manicomio, non faceva fatica a fare suo il mito del superuomo e della difesa della razza,offrendo e sciorinando al potere nuove e più sofisticate “cure” fino a spingersi alla somministrazione dell’eutanasia.

La psichiatria e il nazismo provvidero, così e insieme, all’allontanamento forzato di uomini, donne e bambini dalle loro abitazioni, rendendosi responsabili di una delle forme più miserevoli di crimine, privandoli delle proprie radici, della propria storia ovvero di tutto ciò che è autentico, profondo, intimo. E la psichiatria che pure era nata per aiutare l’uomo a spezzare le catene, finì per sottrarre affetti, sogni e speranze ad intere generazioni che ebbero in cambio solamente barbarie, violenza e morte.

Com’è stridente e forte il contrasto tra la spietata, tragica e luttuosa povertà del nazismo e la prorompente ricchezza della libertà, che è sempre ricchezza di scambi, riscossa, speranza.

La malattia mentale, che portava con sé le stimmate della diversità, finì da quella psichiatria e dal nazismo per essere sempre più identificata come grave colpa:chi era portatore, venne punito, dapprima in maniera parziale (dal contenimento alle pratiche di shock), in seguito in maniera totale con l’annientamento.

Tutto ciò per vari ordini di motivi quali:

  1. I programmi economici non contemplavano il sostegno dei malati perché incapaci a garantire forza lavoro o impegno bellico, né tanto meno i malati mentali potevano garantire produzione e riproduzione, ovvero la razza pura, che doveva naturalmente essere di origine controllata;
  2. La storia era vissuta, dai nazisti, esclusivamente come lotta razziale: pertanto tutti i diversi – che erano poi i non ariani – risultavano essere nemici e come tali da sopprimere.

Se l’obiettivo era l’annientamento dell’uomo diverso, se questo era l’unico scopo, allora quale sarà la risposta alle domande: perché è successo? Come è stato possibile giungere a tanto? Chiunque abbia cercato di affrontare i temi legati al nazismo- ed anche chi vi parla – si è trovato davanti questi interrogativi tanto ampi da potersi perdere. E’ breve, difatti,il passo dai luoghi comuni – acritici ed unidirezionali – da una cronaca che non ha il peso della storia.

Dov’è la libertà se colui che insegna non contempla una porta che ti lascia entrare, da cui, se vuoi, puoi anche uscire? Ma come possiamo fare correttamente convivere storia e memoria?

Ci viene in aiuto uno dei più apprezzati scrittori israeliani contemporanei, Abraham Yehoshua, il quale ha recentemente sostenuto che nessuno può chiederci di dimenticare… ma non dobbiamo, non vogliamo precipitare nell’oblio. L’olocausto è stato un evento così importante, così pieno di significati che ognuno può scegliere il proprio modo di rapportarvisi… ma ciò che dovrebbe interessarci è trarre da quella tragedia una lezione perché eventi del genere non debbano ripetersi.

Il rischio, quindi, potrebbe essere quello, si diceva, del semplice racconto, di apparire scontati, superficiali, persino monotoni e di non riuscire, in ultima analisi, a giungere alle nuove generazioni, lavorando per comprendere, riconoscere e riconoscersi, senza doversi ritrovare, ancora una volta, ad ignorare la voglia dell’homo sapiens: la libertà.

Discutendo della Shoa, del Nazismo, dei campi di concentramento, della soluzione finale, si è sostenuto in certi ambienti ed in maniera del tutto approssimativa, che, in fondo, l’assoluta violenza come la negazione di tutti i diritti sia stata la colpa di alcuni uomini che hanno sbagliato oppure che solo taluni si erano accaniti e basta. Questa lettura è francamente inaccettabile. È invece necessario chiedersi: ma come si è giunti fin li?

Com’è stata favorita e fatta crescere la cultura e la pratica della violenza? Come, in tanti, hanno soffocato la propria ed altrui libertà?

Dov’era il mondo?

Dobbiamo partire da queste premesse se vogliamo tentare di tracciare il percorso della psichiatria di quegli anni e cercare i suoi rapporti con il potere istituzionale, in modo da riflettere anche sull’oggi e, soprattutto, sul domani!

È noto che storici autorevoli ed accreditati, così come i cronisti della carta stampata o i semplici attori dell’epoca, hanno fornito le spiegazioni più diverse sui tremendi avvenimenti di quegli anni; anche qui, però, con il trascorrere degli anni, si è spesso caduti nelle esemplificazioni, nelle ritualità, oppure, sull’onda emozionale, dopo qualche do maggiore ci si è lasciati per troppo tempo la musica alle spalle.

Il rischi che si perda la memoria storica di quegli accadimenti induce in me forte preoccupazione: temo che il numero degli omicidi, le date delle deportazioni, il nome dei lager, il numero degli zingari o dei malati mentali su cui venivano fatti “esperimenti di morte” rischino, con ogni generazione che avanza, di pietrificarsi e di perdere peso e valore. Bisogna invece che la più immane tragedia moderna rappresenti il più grande, forte, pesante, sentito appello alle libertà, sussurrato, urlato, scritto, recitato, cantato in tutte la lingue, filmato con tutti i toni dal più sfumato al più intenso.

Di ciò dirò, brevemente, quest’oggi, ritenendo la libertà l’elemento centrale e di staordinaria attualità: come tutti i sogni è sempre cogente, come tutte le cose sostanziali è illusione. Vi è pertanto bisogno che si allertino le sentinelle della libertà acchè non abbiano più a coprirsi simili tragedie. Queste sentinelle non sono le vaghe ed inconsistenti sensazioni dei fatalisti, tanto meno gli appelli-periodici quanto rituali- ad una solidarietà priva della tensione alla parità, bensì la costante attenzione e verifica alla pratica dei diritti degli uomini, di tutti gli uomini.

Non appaia azzardato il termine coprire perché la scienza psichiatrica tra il 1934-1944 si rese corresponsabile:

  • della sterilizzazione di 350.000 persone;
  • della morte di 70.000 pazienti psichiatrici,dichiarati incurabili da un gruppo di psichiatri
  • della morte dell’80% dei pazienti psichiatrici morti negli Ospedali psichiatrici per fame,per infezioni e maltrattamenti.

Muller-Hill ricorda tra l’altro che tra il 1940 ed il 1941 i pazienti psichiatrici ebrei vennero uccisi con il gas dagli stessi gruppi che uccisero i pazienti non ebrei.

Si fa oggettivamente fatica a parlare di etica psichiatrica allorquando si apprende che “nel luglio del 1940 il Dr. Jaspersen di Bethel, tenta di smuovere i cattedratici tedeschi di psichiatria, affinché protestino contro l’eutanasia imposta dai nazisti. Solo la solitaria protesta del Prof. Eward risponde all’appello.”

Mi è ancor più difficile poter serenamente pensare ad Ippocrate, al giuramento, alla cura, al benessere per i meno garantiti e di cosa, allora, si pensasse dei pazienti psichiatrici e più in generale dell’uomo, da parte del potere e degli psichiatri stessi è presto detto: la scienza esperimenta il coma insulinico,l’elettroshockterapia. Nel 1938, mentre la nazionale di calcio italiana vince i campionati del mondo ed i fratelli Biro mettono in circolazione la prima penna a sfera, si sperimenta sugli ultimi e più indifesi la psicochirurgia ed in Italia vengono promulgate le leggi razziali.

Poco più avanti si pensò di approntare una legge che giustificasse scientificamente (questo ci fa pensare a quanti soprusi si possono commettere in nome della scienza) l’assassinio dei pazienti psichiatrici ma per fortuna il progetto non vide la luce.

In Europa in quegli anni non ci si impegnò per difendere gli ultimi, tantomeno in Italia, dove la mortalità nei manicomi passò dal 6% nel decennio 1930/40 al 14% nel triennio 1942/44. Nel mondo della psichiatria, di questo eccidio nell’eccidio, non vi è traccia negli scritti ufficiali del dopoguerra, tant’è che bisogna attendere fino al giugno del 1978 quando Vittorio Donato Catalano e collaboratori, pubblicano una ricerca sulla “fame e morte nei manicomi campani durante la seconda guerra mondiale”. Essi, tra l’altro, scrivono: “Nel 1946 si tenne a Roma dal 18 al 20 Ottobre, il XXIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria (S.I.P.). Era il primo congresso della Società dopo la guerra. Il precedente – il XXII – era stato tenuto nel 1940, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Ebbene nel Congresso del 1946 a tutte quelle morti non fu rivolta alcuna attenzione particolare. Seguendo la liturgia dei Congressi della S.I.P. dove vi è la consuetudine di ricordare gli iscritti deceduti, l’Assemblea si alzò in piedi ed in tale atteggiamento di rispetto e di omaggio ascoltò la commemorazione ed alla chiusura osservò un minuto di raccoglimento; ma nessuna iniziativa, nessun gesto commemorativo nei confronti delle molte migliaia di malati caduti….. Senza dubbio sarebbe stato anche bene – continua Catapano – che la Nazione avesse saputo chiaro e tondo che nei manicomi durante la guerra erano morte migliaia di persone e, nella stragrande maggioranza, di fame.

Si sa, tutti i governi esortano al risparmio ed allora come oggi, taluni salvatori della patria pensavano al risparmio del denaro pubblico ed a più efficaci metodi di cura: 21 ottobre 1940, Divisione Sanitaria : Allo scopo di ridurre al massimo il consumo di insulina e tenuto conto d’altra parte dei buoni risultati e dei vantaggi che si ottengono con l’uso dell’ESK in varie forme morbose mentali, questo Ministero intende che l’impiego di tale terapia sia maggiormente diffuso negli ospedali psichiatrici del Regno in modo che non si faccia ricorso all’ICT se non dopo aver sperimentato l’ESK.

Tutto ciò ci induce a riflettere sui possibili livelli di compromissione e di reciproco sostegno fra tutti i poteri istituzionali: la psichiatria non solo partecipò alla promozione di progetti e programmi di intervento ma in molti casi si fece carico della loro attuazione pratica andando,talora, anche oltre le intenzioni. Rischieremmo, però di fare della semplice cronaca o peggio dei rilievi sterili se non tentassimo di conoscere le cause di assuefazione e connivenza, così da poter tessere le reti di protezione, che ancora oggi sono necessarie alla difesa ed alla promozione delle libertà. E’ indispensabile, quindi, che si possano riconoscere gli aspetti profondi di una lunga catena di responsabilità che parte da molto lontano, dall’indifferenza pubblica che esalta le virtù del mondo privato, alla cinica aspirazione all’ordine sociale, costi quel che costi.( Chianese e Del Monaco).

Il richiamo è chiaro e forte ed invita ad acquisire la sensibilità vigile di chi è comunque libero nella scelta tra cecità complice o la consapevolezza del proprio partecipare al mondo.

Così si riesce a riflettere sul nazismo – sostengono Chianese e Del Monaco – e ad accorgersi della miseria di chi ci è straniero perché povero, dei genocidi politici ed economici, che avvengono oggi nel mondo, dal Kurdistan alla Bosnia, dalla Somalia all’America latina.

Sicuramente non si potrà dire delle libertà senza attraversare le pieghe del potere, potere che riesce a valicarsi, persino, come vuoto rassicurante, giustificazione di ogni atto, sfrontata impunità, ed uguale sotto tutte le latitudini quali che siano le professioni ed il ruolo che si finisce per occupare. Potere quale annullamento dei valori etici, l’infausto incontro tra l’integralismo, l’intolleranza e l’ignoranza: le libertà si soffocano con l’appiattimento culturale, il culto delle prassi, la pedanteria, il privilegio, il controllo dei suoni, del lessico, dei colori, il silenzio dei poeti, la scomparsa dei saltimbanchi e dei girovaghi.

Quella psichiatria fu, quindi, specchio e prodotto del potere e il suo ruolo subalterno, complice e misero, costituì l’espressione più esplicita di quale considerazione si avesse dell’uomo e quale valore si attribuisse alla sua vita. Difatti per la persona ammalata di mente la “cura” (dall’insulinoterapia alle terapie di shock alla già menzionata psicochirurgia) finiva per coincidere con l’accanimento, il controllo, la punizione, la violenza come mezzo e fine

Della dignità, dei diritti e delle libertà non vi era alcuna traccia.

Psichiatria e nazismo finirono, così, per siglare un “patto di acciaio”: la sofferenza, il malessere , la ricerca e l’approfondimento clinico vennero sistematicamente soppressi – insieme alla cura – per fare posto ad una determinazione forte e ad una pratica brutale tendenti, esclusivamente, al controllo sociale.

Gli psichiatri tedeschi – ma non solo essi – probabilmente dovettero ritenersi, alla pari dei membri del III Reich, al solo servizio della giustizia anche in seguito: gli psichiatri – ricorda Klee – molto raramente accettarono le querelle degli ultimi pazienti che erano stati sterilizzati o che comunque avevano subito danni di altri tipi…… Dopo la guerra la maggior parte degli psichiatri coinvolti nell’omicidio dei pazienti rimase libera e continuò a praticare la professione. Molti di loro presentarono i pazienti che avevano salvato e persino coloro che avevano ucciso tutti i loro pazienti furono creduti quando dissero che pensavano veramente che fosse un buon comportamento terapeutico quello di liberare quelle povere persone dalla sofferenza. Anche questo deve indurci a riflettere su come la continua negazione e lesione della cura e del diritto trovò ampia giustificazione proprio in nome di interessi che venivano riconosciuti come collettivi: in loro nome sono stati perpetrati abusi e violenze.

Ciò che abbiamo detto poco prima circa l’esortazione a non usare l’insulina ma la più economica energia elettrica, è di estrema attualità, se ancora oggi si deve registrare l’invito a risparmiare su alcune prestazioni socio-sanitarie o a ritenere inutili alcuni interventi di tipo sociale, semplicemente perché non tariffabili o perché al di fuori delle tradizionali pratiche terapeutiche.

Il prendersi cura veste spesso i soli panni dei bilanci da fare quadrare e pertanto la loro tinta è quella del cinismo e quando un dubbio costo/beneficio sembra essere vantaggioso per la nazione vengono definiti etici tutti i mezzi adoperati per soddisfarlo.

Possiamo pertanto affermare che è stretta la connessione tra soddisfacimento dei diritti elementari dei cittadini in difficoltà di vivere e capacità della psichiatria di proporsi come attraversamento, percorribilità, risorsa, fruibilità, capacità di ascolto e promozione di relazioni significative. La psichiatria, insomma, finisce per essere uno degli indicatori dello stato di civiltà e di salute di una nazione, misura la capacità di un popolo ad accettare o meno quel che si definisce diversità, quelle “conchiglie umane vuote” come con torva fantasia venivano indicati i pazienti dagli psichiatri tedeschi durante la dittatura nazista.

Libertà e progresso vanno di pari passo e se non si incontrano con i diritti e la dignità sarà ben difficile che riescano ad esprimersi compiutamente: lo sterminio di massa rappresentava più di tutto la negazione dell’individuo, verosimilmente perché le loro vite erano “superflue” e, perché, la società doveva ricevere un ammonimento.

Ho più di una perplessità nel ritenere che la lezione della Shoa sia stata colta tutta e fino in fondo, e che la psichiatria sia stata in grado, nella sostanza, di cambiare pelle, di fare la propria scelta (anche perché gli interessi che gravano intorno ad essa sono tantissimi) così da potere centrare gli obbiettivi di liberazione dalla malattia e di una costante attenzione e rispetto per l’uomo che esprime sofferenza e disagio, essendo ancora infarcita di un biologismo che seppur di volta in volta rivisitato ed aggiornato, rimane pur sempre ottocentesco. Tanto ci deve spingere a continuare la nostra ricerca delle libertà che riteniamo siano, in maniera assolutamente contestuale ed inscindibile, l’insieme della lotta della fantasia e del sogno di tutti gli uomini.

Di qui scaturisce una prima domanda: ma per il raggiungimento di quali libertà dobbiamo impegnarci oggi? Ed ancora: come facciamo a riconoscere la libertà? Di certo dovremmo attendere la pariteticità tra i diversi e molteplici bisogni dell’uomo – strutturali e sovrastrutturali – volgerci alle cose semplici, condivise e partecipate, superando ogni aspetto di drammaticità e di eroismo. A tale proposito Pisolini ricordava: “ho messo tra virgolette la parola “eroi” perché, come mi ha raccontato F.Basaglia, nel suo manicomio una ricoverata ha detto che gli eroi sono un prodotto delle società repressive”.

La libertà è da me intesa come pratica della giustizia, come giustizia da consumare. Quella giustizia che, talora, invochiamo perché ci piace immaginarla e sentirla come la parte più alta e viva del sogno della libertà.

In questo senso nell’idea di giustizia vi è una sconfinata concretezza.

La violazione del sogno delle libertà ha privato gli uomini-resi poveri, soli, intimoriti, incarcerati, affamati, mutilati ed uccisi – della possibilità di incominciare o continuare il viaggio quotidiano: è di questo che dobbiamo assolutamente parlare, avviare una riflessione collettiva. Solo così – afferma Yehoshua – potremmo evitare di fare delle tragedie un mito di Stato, un mito che con il trascorrere del tempo finisce per svuotarsi dell’anima collettiva.

Dobbiamo evitare quindi di parlare un linguaggio astratto ed incomprensibile ai più, lontano dalla vita di tutti i giorni e dalla straordinaria quotidianità che ci spinge a fare, a programmare, a sperare e sognare: la vera barbarie è consistita nell’impedire con la forza, i soprusi e gli omicidi quelle tantissime cose semplici e consuete: poter andare e ritornare, decidere del proprio tempo, poter gestire il proprio negozio, innamorarsi, viaggiare, andare al mare ,votare i propri candidati, festeggiare il compleanno, lavorare, nutrirsi, seppellire i propri cari, partorire nella propria casa, laurearsi, andare al mercato, fare fotografie ,imparare un mestiere, truccarsi, la vendemmia, dipingere, preparare la cena, sognare un futuro e soprattutto poter dire: domani.

La ricerca delle libertà continua… e nessuno reciterà con Whitman:

O Capitano! Mio Capitano! il nostro viaggio è finito …

Gli Ebrei (Angelo Lallo – Lorenzo Toresini)

1. PREMESSA

Dopo oltre 50 anni dalla fine del nazifascismo si era sperato che il germe dell’odio e della violenza fosse stato debellato alla radice. Così non è stato poiché la ricca Europa di fine millennio, l’Europa teoricamente pacificata trova difficoltà a fermare i sentimenti di odio e razzismo che provocano, fatalmente, tensioni politiche, sociali e razziali.

Tuttavia, se non possiamo cambiare il senso della Storia, possiamo “ricordare” alle nuove generazioni che Coloro che non si ricordano del passato sono condannati a riviverlo e che il passato non deve essere dimenticato. Sicuramente hanno rivissuto il passato le popolazioni della Bosnia con le atrocità di pulizia etnica, dei campi di concentramento che pensavamo non più possibili.

Per evitare un’altra Bosnia, altre Shoah, tutti i saperi devono collaborare per far sì che l’ imperativo di essere testimoni attivi della democrazia entri nel codice genetico dell’uomo contemporaneo. In questa prospettiva, dopo la riscoperta di alcuni frammenti di olocausto psichiatrico in Italia, presentiamo una ricerca su un caso di deportazione di pazienti ebrei dall’Ospedale Psichiatrico di S. Servolo (Venezia), convinti che è necessario approfondire queste ricerche nel nostro paese.

Il quesito da porre, in senso più generale, è quanto la psichiatria nazista si colleghi con alcuni presupposti teorici della psichiatria istituzionale; se in sostanza si è in presenza dello stesso paradigma.



2. DALLE LEGGI RAZZIALI AI CAMPI DI CONCENTRAMENTO VENEZIA 1939/1944

Nel 1937 i responsabili della Comunità Ebraica di Venezia, pur obbligati a tranquillizzare i correligionari sul fatto che nulla sarebbe cambiato nella normalità quotidiana, erano preoccupati per l’atteggiamento governativo che stava diventando poco tollerante verso gli ebrei.

Uno dei paradossi del Fascismo, la cui ideologia conteneva presupposti razzisti, emerge con chiarezza dal fatto che, dopo l’avvento del Nazismo in Germania, esso continuò, contemporaneamente al varo di leggi contro gli ebrei italiani, a permettere pubblicamente l’accesso sul territorio nazionale agli ebrei esuli. Era una permissività che serviva al regime, non solo come veicolo promozionale nei confronti della stampa estera, ma anche ad occultare la mancanza di democrazia interna.

Nel 1938 il regime promulgò le leggi antiebraiche con il titolo: “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, che colpirono tutti gli ebrei residenti sul territorio italiano, compresi gli stranieri e quelli che nel frattempo erano diventati apolidi.

Per costoro si prevedeva l’espulsione se non avessero abbandonato l’Italia entro il 12 marzo 1939.

Nell’estate del 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, coloro che non avevano potuto o voluto ottemperare a tale ordine furono internati in appositi campi, di cui il più importante fu quello di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza , ma di fatto gli ebrei continuarono ad essere presenti nel territorio nazionale.

Mai sentore era stato così preciso, poiché il Regio Decreto del 5 settembre 1938 con i “provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, confermati poi dalla “dichiarazione sulla razza” approvata dal Gran Consiglio del fascismo nell’ottobre 1938, inaugurò la politica antisemita sfociata nella deportazione e nello sterminio di massa.

In questo frangente la comunità ebraica veneziana viveva in uno stato di enorme apprensione, aggravata da una disposizione del Ministro degli Interni, che ordinò a tutti i prefetti il censimento degli ebrei.

Fino a quel momento non esisteva in Italia una statistica demografica che distinguesse i cittadini secondo la razza. Si trattò di un censimento riservato, articolato nelle istruzioni ma impreciso nel corso della rilevazione anche perché il concetto di razza era del tutto inedito nell’Amministrazione. Il censimento individuò 2.136 veneziani di razza ebraica: in seguito fu ordinata una parziale revisione che determinò rilevanti variazioni.

Da questa rilevazione l’indicazione della razza ebraica divenne obbligatoria su tutti i documenti civili. D’altra parte la Comunità Israelitica era già obbligata fin dai primi anni ’30 a mantenere in ordine i registri anagrafici per permettere agli organi di polizia di controllare, in qualsiasi momento, la consistenza della comunità stessa.

Era un momento difficile aggravato da numerose informative riservate della polizia e del PNF che denunciavano la presenza di ebrei veneziani nelle attività professionali, denunce che provocarono nei primi mesi del 1940 la cancellazione di medici, avvocati e ingegneri dagli albi professionali.

Nonostante le intense pressioni della Comunità ebraica, l’istruzione pubblica fu preclusa agli ebrei; l’iscrizione all’anno scolastico 1938/1939 fu condizionata al possesso di un certificato di non appartenenza alla razza ebraica; gli insegnanti ed impiegati ebrei furono licenziati.

Le Assicurazioni Generali e la Cassa di Risparmio licenziarono il personale non “ariano”; dagli elenchi telefonici e dalla toponomastica cittadina scomparvero i nomi ebraici; furono ritirati tutti gli apparecchi radio.

Il Ministero della Cultura Popolare non risparmiò i centri culturali e provvide a far licenziare artisti e orchestrali della Fenice; dall’Istituto di Scienze, Lettere e Arti furono estromessi giuristi, matematici, medici e professori; alla biblioteca della Casa Goldoni fu proibito di accettare le donazioni di libri e carte di ebrei; la Fondazione Querini Stampalia, oltre al divieto di avere dipendenti ebrei, ebbe disposizioni sul divieto di consultazione di autori ebrei e sull’accesso di studiosi e studenti ebrei.

Disposizioni che nel loro insieme produssero drammi, disoccupazione ed esodi tali da ridurre ancor di più gli introiti della Comunità, provocando fatalmente frizioni nei ceti più disagiati della popolazione ebraica veneziana. I raid squadristi del 1942 contribuirono al peggioramento di vita di tutta la Comunità ed una disposizione ministeriale, che precettava civilmente a scopo di lavoro gli ebrei compresi tra i 18 e i 55 anni “poiché gli ebrei devono restituire quei benefici che la cittadinanza italiana ad essi procura”, rese la situazione ancora più grave.

L’aspetto più odioso della campagna razziale riguardò l’istruzione elementare e media con l’allontanamento degli studenti dai loro compagni di classe, in ottemperanza alla “purezza del pensiero e della cultura”, e ciò rese necessario l’ istituzione di corsi elementari e medi per i giovani studenti.

L’Università veneziana perse prestigiosi docenti come Gino Luzzatto, costretto a proseguire la sua attività scientifica con pubblicazioni anonime; gli studenti si videro rilasciare i diplomi di laurea con la dizione “appartenente alla razza ebraica”, aspetti che fatalmente portarono il numero degli universitari ad esaurirsi in poco tempo.

Nessun campo della vita sociale fu risparmiato, e si deve all’ A.D.E.I. l’aver saputo organizzare, in quei momenti così difficili, con encomiabile forza d’animo, forme assistenziali di base: dalle colonie estive alla refezione scolastica, dall’organizzazione di corsi di lingua e cultura ebraica alla celebrazione delle maggiori festività.

Sostanzialmente la Comunità veneziana fu obbligata ad assumersi compiti assistenziali prima d’allora di competenza statale, rendendo ancor più profondo il distacco dagli altri cittadini.

Le istituzioni di beneficenza provvidero all’assistenza sanitaria, al soccorso per le famiglie povere, all’aiuto economico per i giovani studenti meritevoli e ad altro ancora.

La Casa di Ricovero assunse un’importante funzione, poiché divenne luogo di degenza per anziani, mensa per i più disagiati e centro di assistenza per coloro che transitavano per la città, in quanto dopo l’entrata in guerra dell’Italia la vita per gli ebrei stranieri e per coloro che transitavano sul territorio nazionale divenne difficile. Molti furono confinati o rinchiusi nei 16 campi e località di internamento del Veneto.

Per tutto il 1942 e il 1943 il flusso di profughi provenienti dal Balcani -occupati dai tedeschi e bombardati dagli alleati – rese allarmante la situazione sociale della città.

La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, non migliorò la condizione degli ebrei veneziani; dal 9 settembre 1943 con il controllo tedesco di Mestre e di Venezia si entrò nell’ottica nazista della “soluzione finale”, che presupponeva come premessa alla deportazione, la precisa conoscenza degli ebrei puri o misti.

La questione era delicata poiché gli elenchi in possesso della Prefettura non coincidevano con quelli della Comunità che, pertanto, era continuamente sollecitata a dare riscontri alle numerose domande di chiarimento.

Era ovvio che i dirigenti della Comunità Ebraica fossero gli unici in possesso di elenchi aggiornati e, proprio per non consegnare queste liste, il professor Giuseppe Jona, dopo aver affidato i nomi ad una persona di provata fiducia, si tolse la vita.

Volendo appropriarsi di elenchi ancor più dettagliati rispetto a quelli che possedeva già, la polizia ritirò i registri di nascita, di morte, di matrimonio e di abiura, utilizzandoli in maniera indiscriminata.

Dopo l’inizio dell’occupazione tedesca e della costituzione della R.S.I. la persecuzione antiebraica si evolse in due fasi distinte: in una prima fase fu il Ministero degli Interni che si occupò della ricerca e degli arresti degli ebrei; una seconda fase in cui la stessa polizia tedesca si sovrappose a quell’italiana.

Il 30 novembre 1943 il capo della polizia emanò un ordine di arresto e di sequestro dei beni di tutti gli ebrei, considerati nemici della patria in applicazione alle leggi di guerra, ordine che fece precipitare la situazione della Comunità.

Infatti, nei primi giorni di dicembre ci fu una gravissima retata da parte della polizia italiana in seguito alla quale vennero rinchiusi parecchie diecine di uomini, donne e ragazzi (questi negli Istituti per minori) nelle carceri di Santa Maria Maggiore, nella casa di Ricovero Israelitica (durante i 18 mesi della permanenza nazifascista fu l’unica istituzione a funzionare curando vecchi e malati) e del Convitto Foscarini.

Sebbene le disposizioni lo prevedessero, non furono rilasciati i malati gravi, gli ultrasettantenni e le famiglie miste.

Naturalmente chi poteva nascondersi lo fece, nonostante i feroci rastrellamenti condotti dalla polizia fascista, autonomamente all’inizio, in collaborazione con le autorità tedesche in seguito.

Giuridicamente le leggi razziali italiane si basavano sugli stessi valori discriminanti di quelle di Norimberga, anzi per alcuni aspetti erano più severe in quanto riconoscevano come di razza ebraica pura, persone con un solo terzo di ascendenza israelitica. Il 28 dicembre 1943 il questore di Venezia, in base alle nuove disposizioni legislative, ordinò la prima deportazione nel campo di concentramento di transito di Fossoli di Carpi degli ebrei arrestati agli inizi di dicembre. Nessuno veniva risparmiato, ammalati, vecchi e bambini, tutti gli ebrei d’Italia, come quelli veneziani, avevano il destino segnato.

Qualora arrestati erano destinati al campo di sterminio, chi attraverso Fossoli, chi da Bolzano-Gries, chi da Borgo S. Dalmazzo, chi attraverso la Risiera di San Sabba di Trieste, quasi tutti furono deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Talvolta alcuni ebrei deportati dall’Italia furono diretti verso Ravensbruck e Bergen Belsen.

Nella seconda fase nazista s’iniziò ad arrestare i malati dagli ospedali cittadini di Venezia e il 7 ottobre 1944 alcuni di essi furono deportati dapprima verso il centro di raccolta di Trieste, poi caricati su vagoni verso Auschwitz-Birkenau.

Qualche giorno dopo, l’11 ottobre 1944, su ordine del comando SS. germanico, dall’O.P. di S. Servolo furono prelevati sei pazienti di religione ebraica ed è su questo triste episodio che si incentra la nostra ricerca. Essa si occupa delle modalità di prelevamento di questi pazienti, della loro deportazione e della immaginabile destinazione finale, visti attraverso l’analisi dei documenti inseriti nelle cartelle cliniche.



3. CRONACA DELLA DEPORTAZIONE DALL’O.P. DI S.SERVOLO

Le prime notizie di fonte ebraica sulle deportazioni dagli OO.PP. di Venezia (S. Clemente e S. Servolo), erano già apparse sulla rivista “Israel” nel 1945, poi riportate da testimonianze e riprodotte in numerosi testi di storici.

Tuttavia leggere le cartelle cliniche, 54 anni dopo, comporta inevitabilmente una duplice analisi poiché se è difficile separare le considerazioni storiche dall’aspetto più propriamente umano, non si può colpevolmente essere indifferenti e non adoperarsi affinché queste microstorie servano non solo per ricordare, ma ad evitare che si ripropongano.

Non si tratta solo quindi dello studio freddo dei rastrellamenti e di altre nefandezze ancor più vergognose perché subiti da soggetti vulnerabili, ma la presa di coscienza, in un parziale risarcimento da parte della Storia, di restituire considerazione a vite “indegne di essere vissute”, in modo da ribaltare la formulazione delle vite indegne di essere vissute in un recupero della loro dignità umana.

La ricostruzione di quegli eventi inizia l’11 ottobre 1944 quando un Commissario di P.S. di Venezia consegnò alla direzione di S. Servolo questa nota: “d’ordine del comando SS. Germanico, ritiro dall’ospedale Psichiatrico di S. Servolo il ricoverato di razza ebraica T. G. di 65 anni, pur essendo avvertito dalla Direzione di questo ospedale che si tratta di malato di mente regolarmente ricoverato a norma di Legge e tuttora bisognoso di cura e custodia in ospedale specializzato”, che è molto simile alle note ritrovate nelle sei cartelle cliniche reperite nell’archivio di S. Servolo.

Quindi, pur essendo consapevole di essere in presenza di un malato bisognoso di cure, il poliziotto italiano adempie all’ ordine di prelevamento e dopo il ritiro dei pazienti, consegna “per ricevuta” la cedola giustificativa come in un banale movimento di merci. Sulla tabella nosologica di alcuni, ci sono degli appunti che con buona grafia invitano, in caso di dismissioni del paziente a telefonare all’ Ufficio di P.S. di S.Elena ed “anche al Comando Tedesco”.

Dall’esame delle cartelle cliniche dei sei ebrei arrestati l’11 ottobre 1944 appare chiaramente come essi, prima ancora che dalle autorità naziste, erano stati fatti oggetto di interesse e di sorveglianza da parte della polizia italiana. Prendiamo il caso di L.C. che il 9 luglio 1943 aveva chiesto spontaneamente di essere mobilitato civilmente (in sostanza di essere dimesso) e di essere adibito in lavori materiali esterni.

Il direttore pur dichiarando che il paziente “è guarito dai disturbi mentali ed è in grado di essere dimesso” si sentì di dover far presente che il paziente “è di razza ebraica”. In realtà L.C. non solo non fu rilasciato ma il suo stato mentale si aggravò tanto che “la crisi di eccitamento si è sviluppata in una tale forma da rendere necessario l’isolamento del malato. Iniziasi la cura dell’elettroshock”: cura che continuò fino al 4 ottobre 1944.

La domanda non venne presa in considerazione anzi, di nuovo il 29 dicembre 1943, l’Ufficio di P.S. di S. Elena si assicurò che il paziente fosse ancora ricoverato. Infatti richiese alla direzione di S. Servolo di “comunicare (anche per telefono al n. cittadino 27731) l’eventuale dimissione”. La risposta fu celere poiché il 4 gennaio 1944 la direzione si premunì di assicurare “che in caso di dimissioni dell’ebreo L.C. sarà data comunicazione a codesto ufficio”. Anche il comando tedesco chiese notizie del ricoverato e il direttore di S. Servolo rispose, con una nota inviata in data 18 febbraio 1944, che “L.C. di religione israelita, di professione impiegato, trovasi ricoverato per malattia mentale con diagnosi di paranoia”.

Nonostante questo certificato l’ Aussenkommando Venedig, situato al numero civico S. Marco 105, richiese perentoriamente in lingua tedesca per iscritto “[…] una perizia medica sullo stato di salute di L. C. Chiediamo in particolare che venga considerato nella perizia la durata e il decorso della malattia, il momento dell’eventuale guarigione […] di accertare se le condizioni di salute della suddetta persona siano allo stato attuale compatibili con la carcerazione”. In realtà la richiesta dei tedeschi non riguarda lo stato mentale di L.C. ma la preoccupazione che egli sia sempre rinchiuso e quindi arrestabile. Come vedremo in seguito, la storia di L.C. si concluse tragicamente, come per altri, con l’arresto il giorno 11 ottobre 1944.

Ma il peggio doveva ancora avvenire ed infatti il 19 aprile 1944 la Questura di Venezia inviò una riservatissima-personale ai direttori degli ospedali e case di cura cittadini con la quale richiese di fornire l’elenco e le informazioni inerenti a degenti ebrei in modo da poter verificare se “le loro condizioni siano effettivamente tali da impedirne il trasporto in campo di concentramento e se agevole ne sia la sorveglianza da parte del personale degli stessi Istituti di cura”.

In realtà poiché si stava preparando la retata si voleva solo appurare la loro presenza nell’O.P.

Per inciso compare per la prima volta, negli atti inseriti nelle cartelle cliniche dell’O.P., la dizione “trasporto in campi di concentramento”. Il 4 ottobre 1944 il vice commissario di P. S., supportato da un interprete e da un militare tedesco, visitò S. Servolo e S.Clemente. Il gruppo accompagnato dal medico di guardia esaminò il registro dei ricoverati, prelevato direttamente dall’ufficio economato.

Nel contempo prese diretta visione degli ebrei ricoverati nei due ospedali, accertandosi di persona della reale presenza di questi pazienti. Nel pomeriggio del giorno dopo lo stesso vice commissario informò telefonicamente la direzione di S. Clemente che “per ordine del Comando Tedesco, tra un’ora saranno prelevati gli ebrei qui ricoverati”, prelevamento che sarebbe dovuto avvenire con l’unica formalità di regolare ricevuta debitamente firmata .

Il direttore di S. Clemente avvisò immediatamente il direttore di S. Servolo (il quale peraltro era già a conoscenza della disposizione) dell’ordine di consegna, tuttavia il prelevamento fu rimandato al giorno seguente per il forte vento che agitava la laguna. Difatti il mattino dopo – 6 ottobre 1944 – il vice commissario con agenti di P.S. e militari tedeschi prelevò cinque degenti ebrei dall’O.P. di S.Clemente firmando le ricevute di consegna.

Egli si premunì di avvisare che stava eseguendo un ordine del Comando tedesco e che il suo compito era solo quello di accompagnarli nella Sala Custodia dell’Ospedale Civile di Venezia.

Dopo questo episodio il direttore di S. Clemente provvide ad avvisare non solo la Procura di Stato, l’Amministrazione Provinciale e la Prefettura di Venezia ma anche i familiari di coloro dei quali si conosceva l’indirizzo.

Per quanto riguarda S.Servolo, sebbene fosse stato già impartito l’ordine di prelevamento la disposizione venne invece eseguita solo qualche giorno dopo. L’ 11 ottobre 1944 con le modalità seguite per il prelevamento da S.Clemente, lo stesso gruppo misto di militari italiani e tedeschi al comando del vice commissario della Questura, prelevò altre sei persone. Nello stesso giorno il direttore di S.Servolo comunicò alla Prefettura, alla Procura e alla Questura che “oggi è stato ritirato da questo ospedale dalla Polizia Repubblicana Italiana, d’ordine del Comando SS Germanico il ricoverato di razza ebraica L.C. […] qui accolto il 10 ottobre 1940”.

La notizia venne riportata nella cartella clinica ma alla voce osservazioni non venne scritto prelevato dal comando militare bensì, in bella grafia, che il paziente era stato dimesso. Pochi giorni più tardi dal registro della popolazione di Venezia la notizia venne perfezionata con la notifica che “il giorno 11 ottobre 1944 dall’O.P. di S.Servolo partì L. C.”, naturalmente per destinazione ignota.

Questo iter è stato ripercorso in tutte le cartelle cliniche dei sei pazienti Analizzando ancora la cartella clinica del paziente M. L. si può azzardare l’idea che sia stato fatto internare dalla madre, supponendo di poterlo salvare da eventuali retate, infatti essa stessa lo accompagnò a S.Servolo la mattina del 26 ottobre 1943 in uno stato di normalità. Dalla lettura della cartella clinica non si può stabilire una precisa diagnosi per il solo fatto che la grafia del medico risulta indecifrabile.

M.L. risulta essere nato a Palermo ma da indagini effettuate egli non risulta iscritto in quegli anni all’anagrafe palermitana, pertanto si può ipotizzare che dalla famiglia siano stati prodotti documenti falsi.

Forse anche per questo il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano ritiene che M.L. non sia ebreo. Tuttavia dalle notizie fornite dal direttore dell’O.P. di S.Servolo, accanto ai dati M.L. venne aggiunto il cognome BLUMS di chiara origine ebraica: con ciò possiamo ipotizzare che il direttore fosse al corrente dei dati anagrafici falsi.

Nei primi anni ’60 il governo tedesco emanò una disposizione con la quale si misero a disposizione dei fondi per indennizzare i familiari di internati nei lager o gli internati stessi, se sopravvissuti, che avessero potuto dimostrare l’avvenuta deportazione. Il governo italiano delegò per la ricerca sia le associazioni degli ex deportati sia le Comunità Ebraiche. Il caso di C. I. rientra in una di queste richieste.

Da notare, anche a titolo di curiosità, che l’efficienza burocratica, vanto dello Stato fascista, in questa circostanza presentò una lacuna poiché all’Anagrafe di Venezia sfuggì che la persona in questione era stata data in partenza dalla popolazione di Venezia.

L’ Ufficio Provinciale del Tesoro di Venezia addirittura scriveva, con richiesta urgente n.1160 del 30 gennaio 1945 rivolta all’O.P. di S.Servolo, che “quest’ufficio deve provvedere al pagamento delle rate di pensione dal 6/1/1944 a data corrente. Pregasi pertanto voler comunicare con cortese sollecitudine se la prefata pensionata trovasi ricoverata o facente parte del personale di servizio di codesto ospedale”.

La Direzione di S. Servolo rispose semplicemente che la paziente era stata ritirata d’ordine del Comando tedesco in data 11 ottobre 1944: con questo, credo, non potremo mai sapere dove sia andata a finire la pensione di un anno della paziente. Un altro strano ricovero è quello di B. G. trasferito dalla Casa di Salute ebraica “Fate-Bene-Fratelli” dove era stato accolto, per sua specifica richiesta, il 10 novembre 1943 con diagnosi di stato depressivo.

Dopo soli 13 giorni venne trasferito all’O.P. di S. Servolo senza il decreto di ricovero definitivo da parte del Tribunale, che stranamente alla data di trasferimento non era ancora pervenuto.

Dalla tabella nosologica dell’O.P. di S. Servolo si evince che la diagnosi di accettazione è palesemente diversa da quella della Casa di Salute “Fate-Bene-Fratelli”; che non esistono recidive di ricoveri; che lo stato di salute è quello di un normale anziano signore di oltre sessanta anni.

Pertanto dai dati in nostro possesso è presumibile che il ricovero sia stato un modo per sfuggire alle retate già in atto su tutto il territorio nazionale e che il trasferimento presso l’O.P. di S. Servolo sia stato pensato come un’ulteriore possibilità di salvezza dato il gran numero di persone ricoverate in quel luogo.

Oggi sappiano che gli eventi portarono invece anche B. G. ad essere prelevato, in quanto ebreo, l’11 ottobre 1944. Le vicende di G. R. ci riportano in un quadro prettamente politico. Infatti egli venne internato con atto della Regia Questura di Venezia il 14 marzo 1940. Nella tabella nosologica della sua cartella si legge che “l’infermo non ha mai presentato disturbi di mente. […] Fu per molti anni interprete nelle Ferrovie dello Stato a Milano. Servì la Patria nel 42° Reggimento fanteria.

Per le leggi razziali il paziente divenne un paziente di mente […] per la perduta prosperità, l’umiliazione di dover [illeggibile] la denutrizione. E’ depresso, non dorme, commette atti strani”. In seguito l’Amministrazione della Provincia di Venezia chiese all’O.P. di S.Servolo notizie molto dettagliate sul passato di G. R., notizie che vennero inviate celermente due giorni dopo confermando che egli era nato in Turchia, aveva trovato lavoro in Italia dapprima in qualità di portiere nell’Albergo “Esperia Palace” di Roma, poi, dopo un ritorno in Turchia di qualche anno, aveva trovato occupazione come interprete presso il buffet della stazione centrale di Milano; di aver prestato servizio militare nel 42° Reggimento Fanteria di Savona; di aver ancora qualche parente in Turchia.

La nota dell’O.P. di S.Servolo non sfuggì alla federazione dei fasci di combattimento – sezione di Venezia in Ca’ Littoria – che informò il direttore di S.Servolo che “G. R., ricoverato in codesto ospedale ha inviato la lettera che qui unita vi rimetto al Segretario dei fasci italiani all’estero chiedendo assistenza. Vi sarò molto grato se vorrete fornirmi notizie sulle condizioni economiche dell’interessato […]”.

Il carteggio tra il direttore di S. Servolo e la federazione dei fasci di combattimento si chiude con l’ultima nota trovata nella cartella clinica indirizzata al vice Segretario federale che relaziona “[…] non posso garantire l’esattezza di quanto afferma, ma è probabile che vi sia del vero. Egli è sprovvisto di mezzi e ne chiede continuamente a tutti.

La Confraternita Israelitica, a cui egli si è più volte rivolto, non gli ha dato sussidi, dei quali in verità, finché resta in Manicomio, non ha alcun bisogno. Il Ministero tempo addietro autorizzò il suo espatrio in Turchia, ma sia per le sue condizioni mentali che per la situazione internazionale non ha potuto avere esecuzione. Restituisco la lettera del G. R. Vincere!”.

Le vicende di G. R. si chiudono come gli altri nella giornata dell’11 ottobre 1944 con il prelevamento dall’O.P. di S. Servolo ma forse è utile trascrivere le ultime righe della sua storia clinica perché illuminante sia del clima che si respirava nel manicomio di S. Servolo, sia del pensiero ideologico del direttore che aveva scritto queste note. Egli infatti scriveva nel luglio 1944: “[…] molto probabilmente la condotta che tiene nel manicomio è quella abituale della sua razza. E’ odioso e fa il piccolo commercio per procurarsi i mezzi per poter soddisfare i suoi piccoli bisogni personali, specialmente il fumo.

Del resto è calmo, tranquillo, ordinato […]”.

La conclusione lapidaria dell’opinione “abituale della sua razza” suscita diversi dubbi interpretativi che qui di tenterà di riassumere attraverso delle domande che potranno divenire ipotesi di futura ricerca.

Era la psichiatria italiana, oltre che sicuramente connivente con il regime fascista, anche collaboratrice nel formulare il concetto di Razza? Oppure questo concetto è imputabile ad un antisemitismo popolare presente in tutte le classi sociali? Esso è da ascriversi agli effetti deleteri della propaganda, fatta anche attraverso i giornali e i film che sicuramente il direttore di S.Servolo avrà avuto occasione di visionare? Probabilmente il direttore avrà avuto una sensazione di dèjà vu quando, nel dopoguerra avrà letto qualcosa sull’ organisieren nei lager, attivata, tra le altre cose, in semplice forma di quel piccolo commercio che tanto dava fastidio al medico e che tuttavia permise a molti deportati di sopravvivere.

Altro argomento estremamente interessante che filtra da queste note consiste nel fatto che il medico responsabile di S.Servolo non ritiene l’ospedale un luogo dove il ricoverato abbia il diritto al superfluo (come le sigarette) in quanto parte delle proprie abitudini di vita. L’ospedale psichiatrico quindi viene considerato come un luogo di costrizione e di punizione e, ipotesi azzardata ma verosimile, in cui il ricoverato esiste in funzione della malattia.

Probabilmente altri pazienti ebrei sono stati prelevati da S. Servolo per essere deportati nei vari campi di concentramento anche prima dell’11 ottobre 1944, ma allo stato attuale della ricerca e con i dati in nostro possesso possiamo solo registrare il caso della paziente S. A. che era seguita, come altri pazienti ebrei, direttamente dall’ ufficio di P.S. di S. Elena. Come per altri pazienti ebrei si chiedeva continuamente di conoscere l’eventuale dimissione; evento poi verificatosi in data 11 gennaio 1944, singolarmente a soli quattro giorni dal ricovero ordinato dalla Questura di Venezia, con biglietto urgente avente come oggetto: “S.A., ebrea, demente”.

Della dimissione della paziente fu tempestivamente avvisato il Commissariato di P.S. il giorno prima ed anche se non compaiono altre notizie nella cartella di questa paziente possiamo senz’altro concordare con gli storici che hanno compilato gli elenchi dei deportati che la paziente S. A. è stata internata ad Auschwitz-Birkenau con partenza dal campo di Fossoli il 22 febbraio 1944.

Ma come spesso accade in queste ricerche, la scoperta di tragedie familiari sono frequenti ed infatti, dopo attenta e scrupolosa analisi effettuata negli archivi del C.D.E.C., con l’ausilio delle le fonti ritrovate nelle cartelle cliniche, si è accertato che S.A. ha avuto due bambine illegittime: una nata nel 1935 di nome Anna, l’altra nata nel 1938 di nome Rosetta.

Mentre la madre era alternativamente o in carcere o in O.P. le due bambine furono accolte (o nascoste) da persone sconosciute.

Purtroppo i documenti testimoniano che le due bambine il 1 marzo 1944 (quindi da sole) furono internate a Fossoli prima e poi deportate ad Auschwitz-Birkenau dove, data l’età, furono trucidate all’arrivo. Fin qui la ricostruzione di alcuni frammenti di storia veneziana vista attraverso i documenti inseriti nelle cartelle cliniche di pazienti internati in un’istituzione totale.

Naturalmente è risaputo che la storia si fa con i documenti, ma attraverso quali documenti? Se si dovesse ricordare o ricostruire gli avvenimenti dell’11 ottobre 1944, accaduti all’interno del manicomio di S.Servolo, solo attraverso atti ufficiali, allora questa ricerca si dovrebbe chiudere con un grande interrogativo, perché i documenti in nostro possesso non ci permettono di sapere con certezza qual è stata la destinazione finale dei sei pazienti prelevati dal manicomio.

In ciò consiste la difficoltà delle ricerche che si occupano di deportazione poiché il reperimento delle fonti è di estrema difficoltà; del resto il procedimento di sterminio prevedeva la cancellazione di qualsiasi traccia dell’individuo da sottoporre a soluzione finale, di conseguenza la distruzione di ogni documento di identificazione era una precisa scelta del nazismo.

Tuttavia, pur non essendoci documenti ufficiali che possono far completamente luce su quelle vicende, qualche testimonianza, come quella della dott. Cortesi Maria Clara, medico psichiatrico a S. Servolo nel 1944, ci permette di definire alcuni particolari inediti.

Per la risposta finale, in mancanza di testimonianze scritte e orali, questa ricerca cercherà di definire, con il maggior grado di attendibilità possibile, attraverso l’analogia del percorso con altri deportati, qual è stato il destino dei pazienti arrestati a S. Servolo, partendo dall’ultima notizia in nostro possesso ovvero il prelevamento e la successiva loro custodia nell’Ospedale Civile di Venezia nella giornata dell’11 ottobre 1944. In quel giorno nella Divisione Custodia degli Ospedali Civili Riuniti (come allora si chiamava l’attuale Ospedale Civile) erano rinchiusi quindici pazienti di religione ebraica. Essi provenivano dagli ospedali della città o direttamente da casa, e il loro ricovero era avvenuto nei giorni immediatamente precedenti l’11 ottobre 1944.

La domanda da porsi è: la divisione custodia serviva da luogo di smistamento in attesa di passaggio in altri reparti oppure era una vera sala custodia per pazienti detenuti? Dalla lettura delle quindici cartelle cliniche reperite nell’Ospedale Civile di Venezia si deduce che i pazienti non erano affetti da sintomatologie che potessero giustificare il loro ricovero in ospedale e ciò si nota dal vuoto nelle caselle della diagnosi di accettazione. Poiché dieci pazienti erano ultrasessantenni, si può ipotizzare che le famiglie, in considerazione dell’età avanzata, avessero tentato di nasconderli per salvare loro la vita, aiutati in questo caso dai responsabili dell’Ospedale civile.

Unica eccezione riscontrabile in S. A., nata in Siberia, già detenuta in un campo di concentramento in località sconosciuta, ricoverata in condizione pietose e quindi non trasportabile. Il luogo di nascita e il fatto che provenisse direttamente da una pensione della città, fa presumere che fosse di passaggio in Italia. Ancora dall’incrocio delle fonti delle cartelle cliniche e i documenti in possesso del C.D.E.C. possiamo dedurre come probabile che S.A. fosse madre di M. BLUMS L.

Non è escluso che il loro ultimo incontro sia avvenuto nella sala custodia dell’O.C. di Venezia il giorno 11 ottobre 1944. Altro dato molto interessante è la presenza di due cartelle cliniche intestate alla stessa persona, J. A., compilate da mano diversa nei giorni 6 e 7 ottobre 1944.

Di conseguenza la domanda da porsi ancora è: l’Ospedale Civile era già in possesso di una lista di ricoverandi ebrei? Il divario tra i dati forniti dall’O.P. di S.Clemente e i dati ritrovati nell’O.C. di Venezia ci permette di rispondere in modo negativo alla domanda. Per suffragare questa tesi forse è utile ricordare che nel periodo interessato vi è stato un aumento degli ingressi nell’Ospedale Civile, evento che ha potuto probabilmente nuocere all’organizzazione interna. Inoltre dal confronto delle liste fornite dalla direzione dell’ O.P. di S.Clemente e dall’ Ospedale Civile di Venezia appare evidente che la sala custodia di quest’ultimo fosse una vera cella di detenzione e non sala smistamento per malati.

Infatti gli elenchi dell’ O.P. di S.Clemente registrano cinque pazienti consegnati, il 6 ottobre 1944, direttamente al Comando militare tedesco, che a sua volta li rinchiuse nella sala custodia dell’Ospedale civile per altri cinque giorni. In questo caso possiamo porre degli interrogativi su come è stato possibile individuare il gruppo di pazienti ebrei ricoverati nell’ ospedale e su chi ha avvisato il comando militare tedesco della loro presenza.

Per rispondere a questa domanda forse è utile menzionare che in quel periodo, da Venezia ad Udine, era molto attivo il capitano Stangl che comandava il distaccamento delle SS di stanza a Trieste con il compito di ricercare, con l’aiuto della polizia fascista e collaborazionisti, ebrei nascosti. Se il Comando militare tedesco aveva momentaneamente rinchiuso i pazienti dell’ O. P. di S.Clemente nell’ospedale civile, in attesa di altra destinazione, e quindi era direttamente a conoscenza di queste persone, sembra del tutto scontato che le notizie che hanno permesso il prelevamento (direttamente da casa nella stessa giornata del 6 ottobre 1944 di altre cinque persone) siano venute dall’interno dello stesso Ospedale Civile.

Nella lista e nelle note delle cartelle cliniche dei quindici pazienti dell’Ospedale Civile essi risultano dimessi il giorno 11 ottobre 1944, nello stesso giorno quindi del prelevamento dei pazienti dell’O.P. di S.Servolo, notizia avvalorata dalla tradizione orale della Comunità Ebraica veneziana. Tuttavia dagli atti dell’archivio ospedaliero non compaiono tracce dei pazienti provenienti da S. Servolo.

La dott. M.C. Cortesi testimonia, a proposito di S. Servolo, che pochi ebrei erano ricoverati; che la direzione del manicomio non poteva ricevere altri ospiti, per tentare di salvarli, principalmente per il gran afflusso di parenti in isola e poi perché i registri erano severamente controllati. La dott. M.C. Cortesi ricorda i nomi di alcuni pazienti che coincidono con le persone di cui ci stiamo occupando, quindi la testimonianza conferma sostanzialmente i dati in nostro possesso.

Lei ricorda inoltre che “dentro l’ospedale entrò un ebreo austriaco, giustiziato dopo la guerra, con le SS. identificando così gli ebrei che poi furono deportati”. La mattina dell’11 ottobre 1944 quando si presentarono i militari italiani, nel manicomio erano presenti circa trenta giovani “partigiani” (secondo il relatore della testimonianza erano renitenti alla leva) che accusavano finti disturbi psichici.

Costoro non furono presi in considerazione poiché l’attenzione dei militari era indirizzata verso i pazienti ebrei, in precedenza avvisati dal direttore dell’ O.P. del pericolo che avrebbero potuto incontrare. I pazienti non seguirono i consigli del direttore Cortesi, ad eccezione di R.A. che “fu l’unica che si oppose con tutte le sue forze facendo la pazza pericolosa che fece scappare le SS. e la spia tedesca terrorizzata. La signora R.A. aveva seguito le indicazioni del prof. Cortesi eseguendo la messa in scena perfettamente”. Gli altri, inconsapevolmente secondo la dott. M.C. Cortesi, seguirono “con gioia gli aguzzini, felici di andare in Germania.

Dal confine mandarono una cartolina al prof. Cortesi comunicandogli che erano in viaggio per la grande Germania”. Questi fatti ribaltano ciò che risulta dalle espressioni trascritte nelle cartelle cliniche dei pazienti di S. Servolo e usate dal direttore che all’epoca appariva non esente da pregiudizi antiebraici. Alla luce di questa testimonianza, però, non possiamo escludere che i medici dell’ O.P. fecero il possibile per salvare la maggior parte di internati ebrei dalle retate.

Allora è d’obbligo porre altri quesiti che qui di seguito riportiamo. Il direttore del manicomio era interessato alla sorte dei suoi pazienti? Richiese informazioni sul loro destino alle autorità naziste, che comunque, ricordiamo, non erano tenute a rispondere in quanto Venezia era territorio occupato militarmente? L’arrivo delle cartoline ci può far ipotizzare che i nazisti volessero tranquillizzare il direttore del manicomio in risposta alle sue sollecitazioni? Per ultimo, le sollecitazioni del direttore erano dovute ad un ripensamento personale o era un modo preventivo di giustificare il suo comportamento successivamente? Domande senza risposte ma, continuando con la ricostruzione degli eventi, l’aggregazione dei sei pazienti di S.Servolo al gruppo dei quindici dell’Ospedale Civile non può essere accertata perché, come già detto, non risulta dagli atti in nostro possesso né in quelli del C.D.E.C., però possiamo ricostruire il percorso di alcuni ebrei presenti nell’Ospedale Civile e di cui si conoscono i movimenti.

Da Trieste, dall’11 ottobre 1944 al febbraio 1945, sono partiti cinque convogli per destinazione Auschwitz e Ravensbruck (l’ultimo deviato a Bergen Belsen), pertanto possiamo presumere che, se non trucidati nella Risiera di S.Sabba, i pazienti possono essere stati destinati per questi Konzentrationlager. Purtroppo alcune liste di trasporto (transportlisten) non sono conservate poiché, per il gran numero di convogli in partenza dalla Risiera di S. Sabba, le registrazioni in partenza dal campo non sono note; occorre aggiungere che i nominativi dei pazienti dell’O.P. di S.Servolo non vengono menzionati dalle liste dei trucidati nella Risiera di S. Sabba.

L’analisi dei movimenti ferroviari in partenza dalla Risiera di S.Sabba ci obbliga ad escludere gli ultimi tre convogli partiti da Trieste perché troppo distanti dall’11 ottobre 1944. Pertanto i convogli con i quali possono esser stati deportati i pazienti ebrei, in riferimento alle date di prelevamento nell’O.P. di Servolo, sono soltanto il 39T partito il 18 ottobre 1944 e il convoglio 40T partito il giorno 1 novembre 1944, ambedue per Auschwitz-Birkenau ed arrivati a destinazione in data imprecisata. Poiché i convogli non sono registrati in arrivo nei documenti dell’archivio del museo statale di Oswiecim, a meno del reperimento di altre fonti, non possiamo chiudere questa ricerca con certezza.

Tuttavia se il nostro lavoro è servito a ricostruire parzialmente le microstorie di alcune persone, a recuperare e a ricordare le loro individualità violate, a portare un solo mattone al grande monumento della Memoria (intesa non solo come conservazione di essa ma come stimolo a mai dimenticare) allora il nostro compito di studiosi ha avuto un senso.



4. CONCLUSIONI

Si è ritenuto di ricordare queste vicende ad oltre 50 anni di distanza non perché strumentalmente sono stati rinvenuti dei materiali d’archivio finora sconosciuti, ma per arricchire la memoria storica. Essa rappresenta, come memoria sociale, il senso d’identità e continuità di un gruppo, ma è un senso che la nostra società tecnicamente progredita tende ad annullare, a trasformare in nozioni da scrivere sui libri scolastici o da seppellire nelle biblioteche. Ormai da qualche anno, consci della profonda cesura tra storia e memoria, gli storici stanno rielaborando la questione, cercando di conciliare i due aspetti in quanto parti ineludibili del vissuto sia individuale che collettivo.

Anche lo studio della Shoah ha bisogno di essere continuamente reso visibile, poiché dal genocidio degli Armeni del 1915 ai crimini staliniani, dalle atrocità in America Latina a quelle nei Balcani, dai crimini di Pol Pot alle stragi algerine, altre Shoah, in tutte le varie forme e particolarità, si sono ripetute o si stanno ripetendo.

Proprio per questo non possiamo deresponsabilizzarci, anzi il ricordo del genocidio degli ebrei non deve essere ridotto a fenomeno della Storia, eccezionale o singolare, ma reso sempre più attuale, vicino e “ingombrante” per quelle coscienze ancora oggi indifferenti.

Se oggi la società cosiddetta civile rinuncia alla comprensione delle dinamiche dei lager, dei gulag, delle deportazioni e dei manicomi allora si corre il rischio che le stesse metodologie vengano usate in futuro nei confronti di chiunque venga definito inutile o dannoso per la società.

C’è un’ultima notazione nel rapporto tra termine lager e quello di manicomio. E’ vero che molti sopravvissuti hanno utilizzato la parola manicomio o lager per far comprendere il luogo delle sofferenze ma erano parole del proprio quotidiano e non sinonimi esemplicativi della loro esperienza.

Tuttavia ci sono sicuramente delle analogie metodologiche e organizzative tra il lager e il manicomio, entrambi espressione dell’universo concentrazionario e della negazione dell’identità individuale. Divergono certamente come obiettivo da raggiungere, in quanto il lager è espressione di un regime che lo prevede come elemento caratterizzante, mentre per la psichiatria il manicomio rappresentava uno strumento di controllo sociale presente in ogni istituzione politica, democratica o meno.

La scommessa del futuro è allora quella di evitare il ritorno delle ideocrazie (sebbene camuffate) frantumando, possibilmente per sempre, il legame tra istituzioni totali e organizzazione della società. Fin qui l’analisi e la ricostruzione storica dei fatti dai documenti e da testimonianze orali.

Quanto in realtà qui ci interessa rilevare è lo straordinario nesso logico e simbolico fra quanto avvenuto a Venezia (naturalmente in misura minore che altrove) e la matrice e il codice genetico della psichiatria. Quella psichiatria che nella sua accezione più somigliante ai fatti di cui oggi si rievoca la storia, la psichiatria istituzionale, più facilmente si presta alla similitudine della deportazione e dell’eutanasia sociale, ma anche quella psichiatria che, partendo da presupposti oggettivanti il malato, ne nega soggettività e diritti di cittadinanza.

La psichiatria sociale, nata, a quanto è dato di sapere, con la Repubblica di Weimar, rappresenta ancora in tutto il mondo il braccio sociale del controllo, con l’avallo dell’attuale ventata neokrepeliniana.

Non dimentichiamo infine il contrappasso per cui fu uno psichiatra a ordinare la pulizia etnica di chi egli considerava culturalmente, linguisticamente e socialmente “diverso”. La guerra jugoslava è stata anche una guerra psichiatrica e la psichiatria ripropone, con forme nuove, i suoi contenuti di “braccio operativo” della pulizia dei diversi della società. Abbiamo imparato il pensiero dialettico di Franco Basaglia.

Continuamo per piacere a riflettere, controcorrente, al trend attuale della deculturazione in psichiatria.

Lo sterminio degli zingari durante la Seconda Guerra Mondiale (Giovanna Boursier)

Durante la seconda guerra mondiale vennero uccisi oltre 500.000 zingari, vittime del nazionalsocialismo e dei suoi folli progetti di dominazione razziale. La storia dello sterminio degli zingari è una storia dimenticata e offesa dalla mancanza di attenzione di storici e studiosi: ancora oggi la documentazione risulta frammentaria e la relazione dei fatti lacunosa. Eppure l’argomento dovrebbe suscitare interesse anche solo per il fatto che la persecuzione degli zingari in epoca nazista risulta essere l’unica, ovviamente con quella ebraica, dettata da motivazioni esclusivamente razziali: proprio come gli ebrei, infatti, gli zingari furono perseguitati e uccisi in quanto « razza inferiore» destinata, secondo l’aberrante ideologia nazionalsocialista, non alla sudditanza e alla servitú al Terzo Reich, ma alla morte.

Ma proprio questo è il nodo centrale del problema. Per molto tempo dopo la guerra, infatti, lo sterminio nazista degli zigani non è stato riconosciuto come razziale ma lo si è considerato conseguenza – in un certo senso anche ovvia – di quelle misure di prevenzione della criminalità che, naturalmente, si acuiscono in tempo di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di « asociali» con la quale, almeno nei primi anni del potere hitleriano, gli zingari vengono indicati nei vari ordini e decreti che li riguardano. Come sappiamo, però, la terminologia nazista non è sempre esplicativa dei fatti: in questo caso il termine « asociale» viene usato per indicare coloro che, per diverse ragioni, non sono integrabili o omologabili col nuovo ordine nazionalsocialista. Gli stessi ebrei nei primi tempi venivano deportati e registrati come « asociali» . È sulle ragioni di questa « asocialità» che bisogna indagare.

In realtà, e va precisato fin d’ora, gli zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, « razza inferiore» , indegna di esistere. La pericolosità – o asocialità – zigana non era, infatti, assimilabile a quella degli altri individui perseguitati per ragioni di ordine pubblico. Gli zingari erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi: la causa della loro pericolosità era nel loro sangue, che precede sempre i comportamenti.

Quella che i nazisti chiamarono « questione zingara» è presente fin dai primi anni del potere hitleriano.
In realtà, già prima dell’ascesa al potere del nazismo, e non solo in Germania, ma in tutta Europa, esisteva una legislazione sugli zingari orientata – in generale – prima al controllo e all’identificazione degli individui presenti sul territorio, poi alla loro omologazione e assimilazione. Nella Germania guglielmina e nella Repubblica di Weimar – analogamente a ciò che accadrà durante i primi anni del regime nazista – la « questione zingara» era affidata quasi esclusivamente alle autorità di polizia locali col compito, sostanzialmente, di far rispettare regole e doveri: gli zingari dovevano lavorare e smettere la vita nomade. Le leggi, inoltre, imponevano loro di possedere carte di identificazione particolari e permessi di soggiorno o sosta in determinati luoghi, concessi a un numero limitato di persone.

La persecuzione nazista degli zigani si inserisce quindi in una storia di discriminazioni lunga secoli, che però, vorremmo sottolineare, solo nell’ambito della teoria e della conseguente prassi del potere nazionalsocialista poté trovare espressione tanto radicale e violenta.

Bisogna anche tener presente che in Germania era particolarmente viva e radicata quella corrente di pensiero che si potrebbe definire « razziale» , che dalle elaborazioni teoriche neoromantiche di fine Ottocento sfociava in quelle piú dichiaratamente volkisch di De Gobineau o di Houston Steward Chamberlain, impregnandosi di esaltazione nazionalpatriottica e misticismo, fino a definire il völk tedesco come popolo eletto, portatore di una missione purificatrice della razza o, piú in generale, dell’intera umanità.

Con l’avvento del nazismo fu semplice, ma essenziale, la congiunzione di teoria e prassi politico-legislativa.

Numerosi scienziati, medici, avvocati, legislatori, professori universitari, si posero al servizio del Reich per elaborare e soprattutto giustificare teorie e atti della politica razziale nazionalsocialista. In base all’assunto per cui esistevano razze superiori e razze inferiori, le prime con il diritto/dovere di dominare e annientare le altre, al Terzo Reich, e alla persona del Führer in particolare, venne affidato il compito supremo di purificazione del mondo.

Fra le razze inferiori, da sempre – e, se vogliamo, erroneamente anche dal punto di vista assurdo dei razzisti quella zingara.

Dal 1934 il ministero degli Interni finanziava e coordinava quelli che venivano chiamati Centri di igiene razziale e ricerca genetica, nei quali la « questione zingara» veniva affrontata con particolare attenzione. In quest’ambito un importante punto di riferimento divenne subito il Servizio informazioni sugli zingari, un centro fondato nel 1899 a Monaco da uno zelante funzionario statale, Alfred Dillmann. Non solo tutto il materiale, tra cui numerose schedature degli zingari presenti sul territorio, venne immediatamente prelevato dai nazisti e utilizzato per identificare migliaia di persone, ma, nel giro di pochi anni, l’istituto fu ribattezzato Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara e trasferito a Berlino.

Nel campo delle ricerche genetico-razziali sugli zingari si distinse il dottor Robert Ritter, psichiatra e neurologo di Tubinga. Ritter e i suoi collaboratori arrivarono a sostenere la presenza di fattori genetici che condizionavano l’esistenza zigana. Eva Justin, assistente del Ritter, dopo aver esaminato 148 bambini zingari abbandonati in orfanotrofio, elaborò addirittura una teoria sulla presenza nel sangue zingaro del gene del Wandertrieb, « l’istinto al nomadismo», segnando cosí il destino di migliaia di persone.

Fin dal 1935 Ritter dichiarava che gli zingari risultano come un miscuglio pericoloso di razze deteriorate […] che ha ben poco a che fare con gli zingari originari ed esplicitava il suo progetto, quello di realizzare ricerche genealogiche e classificazioni razziali su tutti gli zingari presenti in Germania, calcolati intorno alle 30.000 persone. A questo scopo, nel 1936, fondò il massimo istituto nazista per la « questione zigana» , nel 1937 annesso al ministero della Sanità come Centro di igiene razziale e di ricerche politico demografiche, con sede a Berlino, che, incessantemente, fino al 1944, ottenne consistenti finanziamenti e massima disponibilità sia da parte della Società tedesca per la ricerca, sia del ministero degli Interni. Dopo i primi anni di lavoro, nel 1940, Ritter scriveva: la questione zingara potrà considerarsi risolta solo quando il grosso di questi ibridi zigani, asociali e fannulloni […] sarà radunato in campi di concentramento e costretto al lavoro, e quando l’ulteriore aumento di queste popolazioni sarà definitivamente impedito; e nel 1943 annotava che il numero di casi chiariti dal punto di vista della biologia razziale raggiunge attualmente 21.498.

Nel passaggio dalla teoria alla prassi, una delle prime ipotesi formulate per la soluzione della « questione zigana» era stata, in linea con analoghi trattamenti destinati alle razze considerate « nocive» al Reich tedesco, quella di intervenire mediante sterilizzazione coatta di tutta la popolazione zigana, cosí da impedirne l’ulteriore riproduzione.

È ciò che Poliakov definisce « genocidio mediante gli ostacoli alla fecondazione», una sorta di sterminio dilazionato nel tempo. Come è noto, nell’ambito della metodica e scientifica programmazione dello sterminio nazista, la sterilizzazione rappresentava un metodo di annullamento lento ma sistematico di intere popolazioni, dilazionato nel tempo ma ugualmente sicuro: milioni di individui castrati avrebbero costituito un esercito di lavoratori definitivamente inoffensivi e morti in potenza.

Lo stesso Ritter mentre proponeva, per risolvere la « questione zingara», la reclusione e il lavoro forzato, specificava la necessità di preventiva sterilizzazione di tutti gli individui, in particolare dei bambini appena avessero compiuto il dodicesimo anno di età.

Nel 1938 Tobia Portschy, governatore della Stiria, spediva alla cancelleria del Führer un memorandum sull’argomento in cui esplicitamente sottolineava la necessità di sterilizzare gli zingari prima di deportarli in campi di lavoro. Due anni dopo, il 24 gennaio 1940, il segretario di Stato del ministero degli Interni scriveva alla polizia criminale del Reich: Io resto del parere che una soluzione finale del problema zingaro possa essere raggiunta solo attraverso la sterilizzazione di essi e dei loro ibridi. Anche Himmler raccomandava di sterilizzare in massa i ragazzi zingari al compimento dei 12 anni.

Uno dei primi accenni scritti alla sterilizzazione degli zingari risale al 1937, quando la rivista Reichsverwaltungsblatt pubblicò un articolo dove si affermava che il 99% dei bambini zigani di Berleburg risultava maturo per la sterilizzazione.

Durante il processo su Auschwitz sono emerse le prove della responsabilità diretta di un certo dr. Lucas nella sterilizzazione di zingari e zingare a Ravensbrück, dove risultano essere state sterilizzate oltre 120 ragazze. Ancora nel 1945, ad Auschwitz, il professor Clauberg sterilizzò circa 130 zingare appositamente trasferite in quel lager.

Si può quindi dire che la sterilizzazione degli zingari fu largamente praticata durante tutti gli anni del nazismo, prima negli ospedali, poi nei campi di concentramento. Molti zingari vennero effettivamente sterilizzati, spesso costretti all’alternativa (che poi non era affatto tale) tra sterilizzazione e internamento: esiste una documentazione abbastanza ampia su casi di donne zingare costrette a firmare le autorizzazioni all’intervento, la stessa documentazione utilizzata dopo la guerra come alibi dai responsabili.

A mano a mano che i nazisti istituzionalizzavano e perfezionavano la loro macchina razziale, anche il « problema zingaro» si definiva assumendo dimensioni proprie, specificate, piú o meno direttamente, nei vari decreti e circolari emanati a getto continuo nel Terzo Reich.

Nelle leggi di Norimberga gli zingari non sono esplicitamente menzionati, ma sono compresi tra coloro che vengono definiti di sangue « misto e degenerato». Nel commentario a queste disposizioni, del 1936, Globke e Stuckart indicano infatti esplicitamente gli zingari tra coloro che devono essere sottoposti alle leggi di Norimberga, scrivono che in Europa portatori di sangue straniero sono solo ebrei e zigani e precisano che le leggi riguardanti i mezzi ebrei devono essere applicate anche agli altri mischlings (misti) cioè ai mezzi zingari.

Nel giugno 1936 una circolare del ministero degli Interniaffida la « lotta contro la piaga zingara» direttamente alle autorità di polizia, sollecitate a provvedere per la soluzione della questione: si chiede che attraverso leggi speciali e « particolarmente attraverso strumenti polizieschi» si operi concretamente sul problema. È in questo momento che iniziano le deportazioni.

Le prime sono documentate a Dachau dove giunge un trasporto di circa un centinaio di zingari. Nello stesso anno, con lo scopo di « ripulire» la città di Berlino in occasione dei giochi olimpici, 600 zingari vengono confinati a Marzahn – un’ex discarica dove le condizioni di sopravvivenza risultano preoccupanti per le stesse autorità -, che poco tempo dopo verrà dichiarato ufficialmente campo di concentramento. Nel 1937, su pressione diretta del partito nazista, viene istituito anche il campo per zingari di Frankfurt am Main.

La corrispondenza tra le diverse autorità del Reich rivela inoltre che tra il 1933 e il 1939 quasi tutti i sindaci, le autorità di pubblica sicurezza e gli amministratori locali si preoccupano di sollecitare le autorità centrali per la costruzione di campi di concentramento per zingari, o per l’erezione di nuovi campi di lavoro per zingari.

Un po’ ovunque, quindi, gli zingari vengono radunati in luoghi particolari, non necessariamente recintati ma controllati a vista dalla polizia, sottoposti al lavoro forzato, quasi senza cibo, esposti al freddo, al gelo e alla morte continua.

Nonostante si possa affermare che i provvedimenti contro gli zingari vengono regolati già nel 1936 e poi lungo il corso del 1937, è vero che gli zingari in questo periodo rientrano ancora fondamentalmente nella categoria dei cosiddetti « asociali» : come tali, però, non fanno parte della comunità tedesca, nemmeno quando non dimostrano alcun comportamento criminale.

I presupposti istituzionali per un’azione unificata e centralizzata contro gli zingari in quanto tali vengono esplicitati da Himmler, che, nominato capo della polizia tedesca al ministero degli Interni nel giugno del 1936, in breve tempo rende la « questione zingara» centrale nell’ambito della politica razziale del Reich.

Il 16 maggio 1938, infatti, Himmler annette la Centrale del Reich per la lotta alla piaga zingara all’Rkpa di Berlino, cioè alla Centrale della polizia criminale del Reich. È un atto significativo: in questo modo la questione del « disordine zingaro» viene sottratta alla giurisdizione dei singoli Länder e delle autorità locali e posta sotto il controllo diretto della polizia criminale del Reich. La centralizzazione segna la fine della precedente prassi poliziesca tendente ad eliminare gli zingari dalla propria zona di competenza, e affida la questione ad enti con la possibilità di applicare procedure di tipo sistematico. Dal 1939 sarà istituita anche una sezione della polizia criminale col compito peculiare di « combattere la piaga zingara» , che estenderà nuovamente tutti i compiti alle autorità locali, ma con lo scopo, questa volta, di intensificare le persecuzioni.

Il 1938 è un anno cruciale per la storia dello sterminio degli zingari, come lo è per quella degli ebrei, perché è un anno cruciale per il Terzo Reich: quello della notte dei cristalli, dell’Anschluss, della conferenza di Monaco.

L’8 dicembre 1938 Himmler emana un decreto fondamentale sulla «questione zingara», che riassume e rende esplicite tutte le direttive precedenti. È la prima legge contro gli zingari in quanto tali. Si intitola, appunto, Lotta alla piaga zingarae stabilisce che, in base all’esperienza realizzata e alle conoscenze desunte dalle ricerche biologico-razziali, la questione va « considerata una questione di razza» . La distinzione tra « zingari puri» , « meticci zingari» e « vagabondi» implica la necessità di « determinare l’appartenenza razziale di ogni zingaro sul territorio del Reich» , affinché sia poi possibile affidare il problema alle autorità competenti. Queste ultime sono l’Ufficio centrale per la sicurezza dello Stato (Rsha), il ministero degli Interni e, in particolare, l’Rkpa, al quale spetta, in ultima istanza, decidere di qual « tipo» di individuo si tratti.

Se questa legge chiarisce molto bene che la « questione zingara» è considerata una « questione di razza», le successive istruzioni del marzo 1939 servono a indicare gli atti da compiere: il censimento di tutta la popolazione zingara sul territorio, un’inchiesta di biologia razziale su ogni individuo e, di seguito, l’assegnazione di un certificato delle autorità del Reich nel quale siano indicati, attraverso colori diversi, l’appartenenza alla razza zingara e il grado di miscuglio razziale dell’individuo in questione.

Il 17 ottobre 1939 l’Rsha (Ufficio principale per la sicurezza dello Stato) in una lettera urgente (Schnellbriefe), ordina, sottolineando lo scopo di « una soluzione imminente della “questione zingara” su tutto il territorio del Reich» , di schedare e quindi confinare tutti gli zingari in determinati luoghi dai quali è proibito loro allontanarsi. Nello stesso ordine si scrive già di campi di internamento per zingari, loro approntamento, trasporto e vettovagliamento. È, in pratica, la premessa della deportazione.

Il ritmo degli arresti degli zingari tedeschi si intensifica: alla fine del mese di ottobre è documentato l’arresto di un centinaio di « cartomanti» , considerate da Himmler una minaccia concreta per il morale della nazione.

Si stanno attivando i meccanismi della deportazione di massa degli zingari, tanto è vero che in una lettera di Eichmann del 16 ottobre 1939, in risposta a Nebe che gli chiedeva chiarimenti sull’organizzazione dei trasporti di zingari, egli scrive: mi pare che il metodo piú semplice sia quello di agganciare a ciascuna tradotta [di ebrei] qualche vagone di zingari.

Se poi il programma non viene immediatamente realizzato ciò è dovuto piú agli avvenimenti concomitanti (scarsità di convogli e precedenza data alla deportazione degli ebrei) che alla mancanza di volontà. Il 30 gennaio 1940, Heydrich, in una riunione a Berlino, ribadisce che dopo i due movimenti di massa (ebrei e polacchi), l’ultimo riguarderà lo smaltimento di circa trentamila zingari dal Reich […]. Pochi mesi dopo l’Rsha vieta il rilascio di zingari già detenuti in carcere o in campi di concentramento e crea, al proprio interno, un apposito ufficio, denominato prima IV-D4, poi IV-A4, per la deportazione di ebrei, zingari e polacchi, affidato ad Eichmann.

A completare il quadro il 27 aprile 1940 quando, in riferimento allo Schnellbriefe dell’ottobre precedente, Himmler promulga un ulteriore decreto e ordina la deportazione di 2.500 zingari dalle zone di confine del Reich al governatorato generale: « Il primo trasferimento di zingari in direzione del governatorato generale sarà effettuato alla metà del mese di maggio con 2.500 persone raggruppate per clan» . Di seguito si indica il numero di persone che ogni comando di polizia locale deve raccogliere, dando la precedenza a coloro che risultano già schedati o, come recita il vocabolario nazista, « censiti» ; si precisa che la cifra di 2.500 persone non deve essere in nessun caso innalzata o abbassata e che, se necessario, si ricorrerà alla deportazione di altri zingari dai territori vicini.

Alcuni studiosi hanno sostenuto che queste deportazioni erano motivate da ragioni militari, di sicurezza e ordine, perché gli zingari praticavano lo spionaggio. Ciò sarebbe in aperta contraddizione proprio con l’indicazione delle cifre, dovuta invece alla disponibilità di convogli e alle necessità del Reich. Tali indicazioni numeriche, quindi, possono piuttosto suffragare l’ipotesi di un progetto preciso sulla « questione zingara» e della sua messa a punto che per il momento prevedeva questo e non altro. Del resto, in vista dell’imminente campagna dell’Est, non è casuale nemmeno l’indicazione dei luoghi della deportazione: 1.000 persone dalla zona Bremen/Hamburg, altre 1.000 da Dusseldorf, Koln e Hannover e 500 dalla regione di Frankfurt am Main/Stuttgart.

Le deportazioni ebbero inizio a maggio e si svolsero piú o meno secondo i piani, anche se furono necessari trasporti supplementari. Sulla sorte dei deportati si sa qualcosa: alcuni arrivarono in Polonia e furono rilasciati dalle autorità del luogo che non sapevano cosa fare, altri furono imprigionati in campi di raccolta o in ghetti, sotto il controllo delle Ss, come a Belzec, Radom, Kielce, Kryckow, e utilizzati per il lavoro forzato, molti proseguirono verso i campi di sterminio, altri ancora vennero uccisi nelle esecuzioni sommarie di massa compiute dalle Ss in tutti i territori occupati.

Con la fine dell’anno la deportazione degli zingari verso la Polonia cessa e le motivazioni sono di vario ordine: la scarsità dei convogli; le continue rimostranze delle autorità polacche per l’enorme numero di prigionieri affluiti; il fatto che la schedatura degli zingari non fosse ancora terminata; la necessità di approntare un piano dettagliato sulla loro sorte. Soprattutto, questa pausa nelle deportazioni di zingari, è motivata dalla necessità di dare assoluta precedenza a quelle degli ebrei: le loro case servivano infatti per il piano di ripopolamento tedesco delle zone polacche, affidato da Hitler ad Himmler nell’ottobre del 1939.

La prima politica di deportazione degli zingari diventa cosí di lungo termine. Restano i campi di concentramento già esistenti e gli zingari già imprigionati.

Contemporaneamente vari elementi introducono ed evidenziano i presupposti della « soluzione finale» per gli zingari: il 7 agosto 1941 Himmler promulga una circolare che stabilisce le etichette biologiche degli zingari suddividendoli in Z (zingari puri), ZM+ (nati da matrimoni misti con oltre il 50% di sangue zingaro), ZM (con uguale percentuale di sangue tedesco e zingaro), ZM-.

Gli zingari vengono anche definitivamente assimilati agli ebrei nell’annullamento dei diritti personali, con provvedimenti che riguardano la loro espulsione dalle scuole tedesche, il divieto di sposare cittadini tedeschi, il loro esonero dalla carriera militare, l’esclusione dall’assistenza medica e dalla retribuzione festiva per i lavoratori, peraltro già congedati dalle fabbriche belliche o da altri impianti di interesse strategico.

Con l’attacco all’Unione Sovietica si evidenzia e si fa sempre piú violenta la politica di sterminio. Facendo delle esecuzioni di massa il loro metodo principale, le Einsatztruppen e le truppe di occupazione intensificano la loro campagna di morte contro gli zingari anche in Russia, negli Stati balcanici e in tutto l’Est.

All’inizio del 1941 un trasporto di 5.007 zingari arriva nel ghetto Lodz: quasi tutti i prigionieri muoiono durante l’inverno per un’epidemia di tifo petecchiale, e i superstiti, nel gennaio dell’anno successivo, vengono trasferiti a Chelmno e qui gasati.

Gli zingari vengono perseguitati e imprigionati anche negli altri territori conquistati e occupati dai nazisti: Francia, Belgio, Olanda, Jugoslavia, Italia. Vengono deportati nei campi di concentramento, costretti al lavoro forzato, uccisi, se non dal freddo o dall’inedia, dalle Ss. Il 31 luglio 1942, ad una richiesta da parte delle autorità polacche circa il comportamento da tenere verso gli zingari, il ministero per i Territori occupati dell’Est risponde che per il momento valgono le stesse regole date per gli ebrei.

Il 1942 rappresenta un altro momento cruciale di questa storia. Nel giro di un anno la Germania, che aveva raggiunto l’apice della potenza e della politica di dominazione, deve rivedere i propri piani, mentre la tendenza della guerra si inverte. È in quest’ambito, ancora contraddittorio, di grande entusiasmo e contemporaneo inizio della fine, che troviamo momenti fondamentali della politica razziale del Reich e, in particolare, del percorso verso la « soluzione finale». Va anche ricordato che nel gennaio del 1942 si tiene la conferenza di Wannsee, in cui si decidono i mezzi e i metodi della « soluzione finale».

Il 16 dicembre 1942 Himmler firma l’ordinanza per la deportazione degli zingari ad Auschwitz, uno dei piú noti campi di sterminio. Il 29 gennaio 1943 l’Rsha emana le istruzioni per l’esecuzione del decreto: gli zingari dovranno essere « selezionati e, nel corso di un’operazione della durata di qualche settimana, trasferiti in campo di concentramento […] verso il lager di Auschwitz» . Si stabilisce anche che, per quanto possibile, gli zingari vengano internati senza dividere le famiglie. L’operazione dovrà partire « il 1° marzo del 1943 e terminare entro la fine del mese».

È un decreto fondamentale perché comprende l’intera storia della deportazione e dello sterminio degli zingari. Vi ritroviamo, riassunte, tutte le elucubrazioni sulla razza zingara, dalla questione, sollevata da Himmler, della purezza di certi gruppi, alla identificazione di tutti gli altri come razza impura e indegna di vivere. Inoltre si affida l’intera operazione alle autorità di polizia e si stabilisce non solo che gli zingari devono essere tutti internati ma che il luogo del loro trasferimento sia Auschwitz, il piú noto campo di sterminio. Il fatto che l’intera operazione debba concludersi entro il mese è probabilmente ancora una volta da collegare ai tempi imposti dalla guerra. Due giorni prima di questo decreto, infatti, Himmler aveva chiesto all’Rsha una fornitura di almeno 35.000 uomini abili al lavoro da destinare ai lager. L’Rsha rispondeva dicendo di aver solo 10/15.000 ebrei disponibili. Lo stesso giorno Himmler ordina l’internamento degli zingari.

I rastrellamenti iniziano nel mese di febbraio. Le operazioni proseguono rapidamente e massicciamente. Persino ospedali e orfanotrofi vengono perquisiti. Le Ss circondano gli accampamenti o i campi di raccolta e rastrellano tutti i presenti, spesso dicendo loro che sarebbero stati trasportati in una colonia in territorio polacco. In una testimonianza raccolta da Kenrick e Puxonsi legge:

Il 9 marzo 1943, 134 zingari, uomini, donne e bambini, furono svegliati nell’accampamento di Berleburg […] Furono ammassati nel cortile di una fabbrica e privati di ogni avere; furono caricati in carri bestiame e avviati ad Auschwitz. Ne sopravvissero 9 […] Gli zingari venivano prelevati addirittura dai posti di lavoro e deportati immediatamente […] Ogni gerarca aveva un’interpretazione sua da dare […] taluni separavano i genitori dai figli, inviando i primi nei lager e lasciando i secondi sul posto, e viceversa.

Nei campi di concentramento, probabilmente proprio in quanto considerati di razza pura degenerata, gli zingari vengono spesso utilizzati come cavie negli esperimenti medici e di sterilizzazione. Ci sono molte testimonianze in questo senso. Ad Auschwitz il dott. Mengele compiva i suoi agghiaccianti esperimenti sui bambini zingari, in particolare sui gemelli. Una delle sue cavie fu Barbara Richter, che ha lasciato un’intensa testimonianza sulla sua vicenda:

Il dott. Mengele mi ha presa per fare esperimenti. Per tre volte mi hanno preso il sangue per i soldati. Allora ricevevo un poco di latte e un pezzetto di pane con il salame. Poi il dott. Mengele mi ha iniettato la malaria. Per otto settimane sono stata tra la vita e la morte, perché mi è venuta anche un’infezione alla faccia […].

Persino il giorno della gasazione finale degli zingari, Mengele preleva ancora i corpi di dodici coppie di gemelli zingari per sottoporli a sperimentazione.

Sulla presenza degli zingari nei campi di concentramento esiste una documentazione frammentata, ma sufficiente a testimoniare della loro prigionia un po’ ovunque. Erano contrassegnati dal triangolo nero degli « asociali» spesso affiancato dalla lettera « Z» , per Zigeuner, « Zingari» . La loro presenza risulta documentata a Dachau, a Lachenback, a Majdanek, a Mauthausen, a Buchenwald, a Ravensbrück, a Treblinka e anche a Sobibor, Belzec, Gross-Rosen, Gusen, Natzweiler, Theresienstadt.

La documentazione maggiore riguarda Auschwitz, dove, per un certo periodo, esistette una sezione appositamente riservata agli zingari: il campo BIIe per famiglie zingare. Lo Zigeunerlager, come era chiamato, entrò in funzione alla fine del febbraio 1943 e cessò di esistere ai primi di agosto del 1944, quando tutti coloro che vi erano sopravvissuti vennero condotti nelle camere a gas. Il primo trasporto vi giunse il 26 febbraio 1943. Dal 7 marzo vengono regolarmente registrati trasporti di zingari dai territori occupati, tanto che in breve tempo risulta superato il limite della capienza, 10.000 persone. Va specificato che anche prima della costruzione del campo per famiglie zingare, gli zingari erano internati ad Auschwitz e che alcuni vi rimasero anche dopo la costruzione del lager BIIe: il 20 gennaio 1944 ne risultano 479.

Nello Zigeunerlager i prigionieri vivevano in condizioni particolari: separati dagli altri prigionieri, gli zingari non erano sottoposti alla selezione iniziale – anche se si sa di alcuni convogli neanche registrati e mandati immediatamente nelle camere a gas -, ma, tatuati e rasati a zero, subito destinati alle loro baracche dove rimanevano con le loro famiglie. Poi nessuno si preoccupava di loro: non avevano l’appello mattutino, non facevano parte dei gruppi di lavoro, le donne potevano addirittura partorire. Una condizione che potrebbe persino sembrare di privilegio, se non fosse che l’abbandono e il disinteresse verso questi internati da parte delle autorità di Auschwitz sottintendeva, in realtà, il loro destino di morte. Per questo gli zingari venivano abbandonati, in condizioni agghiaccianti: la mancanza di cibo, il freddo, le malattie rendevano difficilissima la sopravvivenza. Hermann Langbein, allora medico nell’infermeria del lager, ricorda di aver registrato che l’indice di mortalità dello Zigeunerlager risultava molto piú alto che nel resto di Auschwitz. Per questo vi si recò e trovò condizioni orrende: bambini colpiti da una terribile malattia della pelle, causata dalla denutrizione, il noma, uomini e donne moribondi, in stato di abbandono totale, stipati in baracche gelide e senza spazio per muoversi. Langbein ricorda che la sentinella polacca lo condusse anche nel blocco dove stavano le donne in attesa di partorire:

Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochi giorni di vita. Che aspetto hanno! Le membra sono secche e il ventre è gonfio. Nelle brande lí accanto ci sono le madri; occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta piano una ninna nanna: « A quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione» […] L’infermiere polacco che ho conosciuto a suo tempo nel lager principale mi porta fuori dalla baracca. Al muro sul retro è annessa una baracchetta di legno che lui apre: è la stanza dei cadaveri. Ho già visto molti cadaveri nel campo di concentramento. Ma qui mi ritraggo spaventato. Una montagna di corpi alta piú di due metri. Quasi tutti bambini, neonati, adolescenti. In cima scorrazzano i topi.

Alla fine, quindi, anche le condizioni particolari dello Zigeunerlager si rivelano per quello che sono, la realtà di un campo di sterminio nazista.

Non si conoscono con precisione le ragioni di questo trattamento particolare. Poco dopo la costruzione dello Zigeunerlager, l’ufficio V dell’Rsha, precisa che solo « per il momento» gli zingari vanno tenuti separati dagli altri prigionieri, per essere poi sottoposti allo stesso trattamento riservato agli ebrei. Si possono fare delle ipotesi tra le quali la piú accreditata è che si trattasse di un progetto di sperimentazione – analogamente al caso del lager per famiglie del ghetto di Theresienstadt – per capire cosa si potesse fare di altri gruppi razzialmente simili qualora fosse continuata l’occupazione tedesca. Tale ipotesi è anche suffragata dal fatto che, come abbiamo visto, gli zingari di Auschwitz erano tra le principali vittime degli esperimenti medici e di sterilizzazione. Altre supposizioni che sono state fatte: il campo serviva a mantenere negli zingari l’illusione della sopravvivenza e ad evitare, cosí, ribellioni; venivano tenuti lontani dagli altri prigionieri che non volevano gli zingari; le vicende della guerra avevano lasciato aperto il problema; le camere a gas erano sempre impegnate nell’eliminazione degli ebrei. La Novitch suppone che gli zingari fossero lasciati in vita a beneficio di eventuali ispezioni della Croce rossa nel lager e anche perché il loro sterminio coinvolgeva molti zingari assimilati i cui congiunti erano ancora liberi. In ogni caso tutti questi fatti descrivono piú le conseguenze che le cause della deportazione. Il loro destino di morte non può essere messo in dubbio.

La storia dello Zigeunerlager termina la notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1944, quando tutti gli zingari ancora in vita vengono uccisi nelle camere a gas e poi bruciati nei forni crematori. Erano oltre 3.000 persone, forse anche 4.000. Anche i motivi dell’ordine di annientamento non si conoscono. Ma, anche in questo caso, si possono fare delle supposizioni: la fine del lager BIIe avviene quando è registrato l’arrivo di un grosso convoglio di ebrei ungheresi abili al lavoro; il fronte russo si avvicina e l’apparato di sterminio viene potenziato al massimo; i convogli arrivano soprattutto ad Auschwitz ma insieme avanzano gli alleati. Insomma, la fine dello Zigeunerlager viene probabilmente decisa quando alla teoria razziale si sovrappone la prassi inclemente della guerra e i nazisti necessitano del massimo di manodopera, ma vogliono contemporaneamente arrivare alla « soluzione finale» nel piú breve tempo possibile.

Non si sa esattamente nemmeno chi abbia dato l’ordine dello sterminio: Höss, comandante di Auschwitz, dice di averlo ricevuto da Himmler dopo una visita del Reichsführer delle Ss nel campo, ma le date non coincidono. È molto probabile che sia stato Höss stesso a decretarne la fine, ovviamente in accordo con le alte gerarchie del Reich.

Le selezioni iniziarono nell’aprile del 1944 (alcuni zingari abili al lavoro vennero mandati a Ravensbrück, Buchenwald e Flossenberg) e continuarono fino al giorno prima della gasazione finale.

Alle ore 20.00 del 31 luglio gli zingari vennero caricati su camion e trasportati nelle camere a gas: nessuno si salvò, in quella terribile notte. Racconta un medico ebreo prigioniero ad Auschwitz:

L’ora dell’annientamento è suonata anche per i 4.500 detenuti del campo zingaro. La procedura è stata la stessa applicata per il campo ceco. Prima di tutto divieto di uscire dalle baracche. Poi le Ss e i cani poliziotto hanno cacciato gli zingari dalle baracche e li hanno fatti allineare. Hanno distribuito a ciascuno le razioni di pane e i salamini. Una razione per tre giorni. Hanno detto loro che li portavano in un altro campo […] Il blocco degli zingari sempre cosí rumoroso, s’è fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e finestre lasciate aperte che sbattono di continuo.



Molti dei sopravvissuti ad Auschwitz ricordano quella notte con parole di angoscia terribile, e, in particolare, si soffermano sulla descrizione agghiacciante della ribellione degli zingari al loro terribile destino: « Le Ss – scrive Langbein – dovettero fare uso di tutta la loro brutalità. Alcuni, che cercavano di far salire gli zingari sui carri, non ci riuscirono» . Langbein riporta anche la testimonianza dell’infermiera Steinberg che, pochi mesi prima, aveva ricevuto istruzioni per la compilazione di un elenco di tutti gli zingari ancora nel blocco: « Udimmo urla […] Il tutto durò parecchie ore. Ad un certo punto venne da me un ufficiale delle Ss che non conoscevo a dettarmi una lettera che diceva “Trattamento speciale eseguito”» […] Quando si fece giorno nel campo non era rimasto un solo zingaro.

Ma la testimonianza piú preziosa, in tempi di revisionismi e negazioni della storia, risulta quella di Höss, comandante di Auschwitz, preziosa perché diventa ammissione di fatti proprio da parte di un nazista: « Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti, ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione di sterminio era stata cosí difficile».

Nel gennaio del 1945 gli zingari rimasti ad Auschwitz erano pochissimi: all’appello del 17 gennaio risposero solo 4 uomini.

Lo sport nella Germania nazista, tra adesione e dissidenza (Laura Fontana)

Esistono numerosi studi dedicati all’utilizzo dello sport da parte del regime nazista come strumento di propaganda e come mezzo per “addomesticare” le masse, abituandole alla violenza (l’attività fisica è intesa innanzitutto come preparazione militare) e all’obbedienza. In tale ambito, la Germania di Hitler non inventa nulla, basti pensare all’enorme influenza esercitata dalla politica sportiva promossa dal regime fascista di Mussolini sul Führer e sulle élites naziste.

Per i governi totalitari ed autoritari (ad esempio il regime di Vichy), le competizioni sportive internazionali rappresentano un’opportunità straordinaria sia per rafforzare la coesione interna dello Stato, vale a dire il senso di identità nazionale del popolo, sia per dimostrare agli altri Paesi la propria forza e la propria superiorità. In effetti, quale migliore esempio della vitalità e della salute di un governo che realizzare delle vittorie sportive davanti ad una platea internazionale?

Tuttavia, la politica sportiva del Terzo Reich ha una specificità che la differenzia da quella degli altri governi totalitari e che deve essere analizzata per comprenderne le conseguenze per il destino dei suoi atleti. Occorre mettere in luce quel legame concettuale e politico strettissimo che unisce il concetto di sport, cioè di attività fisica, a quello di corpo. Il nazismo non intende mai il corpo come corpo dell’individuo, ma sempre riferito ad un’entità collettiva, il Volk (popolo inteso in senso etnico-razziale). È il Volkskörper, il corpo sociale, il corpo della nazione Volksgemeinschaft (comunità nazionale) che deve essere mantenuto in buona salute e fortificato, temprato alla fatica e alla sofferenza, per dare dimostrazione di superiorità razziale, ma anche per rigenerare la razza stessa. Il celebre slogan nazista “Dein Körper gehöhrt dir nicht!” (il tuo corpo non ti appartiene) ci fornisce un esempio illuminante.

Se mantenersi sani e forti è un dovere patriottico di tutti i cittadini tedeschi “ariani”, tale dovere non può che essere ancora più pressante per gli atleti del Reich, incarnazione dell’uomo nuovo nazista.

Solo interpretando correttamente l’uso dello sport nella Germania di Hitler si riesce a comprendere il processo di trasformazione che investe gli sportivi tedeschi di sangue “puro” (ovvero solo gli “ariani”), elevandoli al rango di eroi e semidei, ma anche a comprendere il livello di pressione psicologica e di violenza fisica cui vengono sottoposti. Lo sportivo del Reich è allenato a superare la soglia del dolore, della fatica e della paura, ha il dovere di vincere perché la vittoria è la prova della sua appartenenza alla razza eletta. La perdita sul campo sportivo è un disonore che si traduce in un’umiliazione pubblica e collettiva per l’intera nazione (Volksgemeinschaft), perché lo sportoccorre tenerlo ben presente – per il nazismo è Lebenskampf, lotta per la vita.

Metafora del soldato invincibile e personificazione dell’uomo nazista perfetto (o del perfetto “ariano”), il campione sportivo del Reich attira su di sé tutte le aspettative di un regime che ha bisogno del corpo dell’atleta per esibire la prova della propria superiorità biologica.

Ci fu resistenza negli ambienti sportivi tedeschi di quegli anni?

Tralasciando l’ambito degli ambienti sportivi comunisti e cattolici che richiedono una lettura differente, possiamo dire che nella Germania degli anni Trenta lo sport non costituì un’eccezione alla regola. Anzi il mondo sportivo tedesco, proprio per l’utilizzo propagandistico dell’attività fisica promosso dal regime, si dimostrò particolarmente influenzabile e disponibile ad aderire al nazismo. D’altro canto, gli atleti “non ariani”, vale a dire innanzitutto gli ebrei, furono espulsi da tutte le federazioni sportive fin dalla primavera 1933 proprio in virtù di un’adesione massiccia al regime, ovvero per decisione spontanea delle stesse federazioni, senza che vi sia stata la necessità di promulgare una legge specifica.

Troppo spesso tendiamo a dimenticare che il nazismo non fu solo repressione e violenza, ma per la maggioranza della popolazione tedesca fu innanzitutto fascino, seduzione e consenso, per lo meno nei primi dieci anni di governo.

Questo panorama di una società tedesca incline al nazismo e facile da nazificare, non deve impedirci, tuttavia, di individuare anche all’interno di una massa sostanzialmente vicina (o indifferente) al regime ambiti di resistenza meritevoli di essere analizzati. Resistenza, però, nel senso promosso dallo storico Martin Broszat negli anni Settanta, ovvero di Resistenz, di resistenza passiva all’indottrinamento e alla manipolazione, di dissidenza e di disobbedienza civile.

È in quest’ottica che va messo in luce il destino del tutto eccezionale di due grandi campioni internazionali dello sport come il ciclista Albert Richter e il pugile Max Schmeling, entrambi tedeschi e considerati “ariani” dal regime, che riuscirono a mantenere una certa distanza dal nazismo, compiendo anche scelte coraggiose in nome della propria coscienza.

Sono due storie completamente sconosciute all’opinione pubblica, studiate e diffuse in Germania solamente negli ultimi anni (la prima biografia tedesca di Schmeling esce nel 1998, quella di Richter nel 2001) ma che rivestono un’importanza particolare proprio perché gettano una luce di speranza su di un periodo contrassegnato dalla sottomissione e dall’obbedienza, dalla paura e dall’opportunismo.

Né militanti antinazisti, né dotati di una coscienza politica o di una statura morale ed intellettuale di particolare rilevanza (entrambi i campioni seppero trarre il meglio dal successo e dai privilegi riservati alla propria categoria di sportivi e non presero mai posizione apertamente contro la politica razzista ed antisemita del proprio Paese), Albert Richter e Max Schmeling non vanno trasformati né in eroi né in santi, come invece accade per buona parte della letteratura sportiva di stampo giornalistico. E nemmeno nel simbolo di una resistenza organizzata alla dittatura nazista.

L’eccezionalità di Albert Richter e di Max Schmeling sta nell’aver incrociato la grande storia, nell’aver vissuto e realizzato la propria carriera in un’epoca eccezionale, un’epoca che li ha posti di fronte a dilemmi morali e che ha richiesto loro scelte importanti. Si tratta di grandi sportivi (dunque famosissimi anche al di fuori del Reich, con un’influenza notevole sul pubblico come avviene per ogni personaggio celebre ed amato) che seppero vivere anche controcorrente, rifiutando di lasciarsi manipolare completamente dal nazismo.

Sono i loro gesti, le loro scelte e le loro decisioni, come sportivi e come uomini, che li hanno resi grandi e meritevoli di essere ricordati con rispetto.

Perché dimostrano che dire di no era possibile anche nella Germania nazista.




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