Mahamed che voleva morire

di Rocco Canosa*

Nel Centro Medico “Stenone” della Caritas di Firenze, che si occupa di migranti e senza fissa dimora per le problematiche sanitarie, ho incontrato Mahamed, che mi racconta la sua storia.

Il mio nome è Mahamed. Ho 38anni e sono nato ad Abeche, in Ciad. I miei genitori e mio fratello maggiore vivevano nella capitale N’Djamena, mentre io sono cresciuto con mia zia. Mia zia non poteva avere figli, così i miei genitori mi hanno lasciato con lei, la quale era molto povera e dipendeva economicamente dal lavoro di mio padre. Lui aveva un piccolo pezzo di terra dove coltivava gli ortaggi che poi vendeva al mercato. La zona di Abeche dove sono cresciuto è completamente abbandonata dallo Stato, poiché la Regione, con un alto numero di ribelli, è stata sempre in opposizione al Governo centrale. Non ci sono scuole ed io ho frequentato la scuola coranica per soli sei mesi. Lì ho appreso l’arabo e i fondamenti della regione islamica.

Nel 2006 sono stato incarcerato. Sono stato accusato di furto da un vicino di casa. Questi era stato derubato e, poiché ero molto povero e non potevo permettermi un avvocato , ha incolpato me.

Sono stato detenuto nella prigione di Abeche, famoso per la durezza del trattamento dei prigionieri, considerati tutti ribelli dal Governo.

Sono stato rinchiuso in una cella di otto metri quadrati con altre venti persone. Ci davano da mangiare due volte al giorno una piccola porzione di riso. E ci davano da bere pochissimo, attraverso un tubo di gomma che ci infilavano in bocca. Non mi sono lavato per un anno. Quelli per cui la famiglia poteva pagare, corrompendo le guardie, potevano uscire a lavarsi e rientrare. Io però, non potevo farlo, perché non c’era nessuno che poteva dar denaro per me. Alcuni carcerati sono morti davanti i miei occhi per le infezioni dovute ella sporcizia. Dopo quasi un anno di reclusione mi hanno rilasciato, perché non avevano alcuna prova a mio carico, a causa del furto di cui ingiustamente ero stato accusato.

Nel febbraio del 2008 i ribelli hanno preso N’Djamena e l’aviazione francese, alleata del presidente del Ciad, ha sferrato un attacco aereo, bombardando la capitale. Molti civili sono stati uccisi e tutta la mia famiglia è morta sotto le bombe che hanno distrutto la nostra casa. Siamo sopravvissuti solo io e mia zia. In preda al panico e sotto shock, sono fuggito dalla casa di mia zia, senza avvisarla e per questo mi sento in colpa ancora adesso.

Ho cominciato a vagare senza meta di villaggio in villaggio, dormendo all’aperto e chiedendo l’elemosina per mangiare. Volevo uscire dal paese e quando le frontiere sono state riaperte, ho deciso di tentare la sorte andando in Niger. A bordo di un camion, dopo quattro giorni di attraversamento del deserto, sono riuscito ad arrivare in Niger. Ma lì non ho trovato alcun lavoro e dopo alcuni mesi di vita da mendicante, ho deciso di partire per la Libia. Ho trovato un autista di camion, al quale ho offerto il mio aiuto in cambio del passaggio. Giunto in Libia, quest’uomo mi ha dato la possibilità di lavorare come pastore delle sue greggi di capre.

Ho fatto questo lavoro per tre anni a mezzo, nel deserto.

Nel 2015, quando in Libia è iniziata la guerra civile ho rivissuto la stessa paura che mi aveva spinto a lasciare il mio Paese. Al mio padrone ho detto che non volevo continuare a lavorare sotto l’incubo di continui attacchi militari. Dopo tutte le esperienze drammatiche vissute, mi sono ritrovato di nuovo nel mezzo di una guerra. Questo mi ha gettato in uno stato di profonda disperazione e dunque per me non aveva più senso vivere. Ho pensato così di suicidarmi, ma non potevo farlo, perché Allah non mi avrebbe perdonato. Allora mi è venuta l’idea di imbarcarmi verso l’Italia, con il solo scopo di morire in mare, sapendo che molti migranti che avevano tentato la traversata del Mediterraneo era annegati.  Avrei messo fine alla mia sofferenza, ma Allah mi avrebbe perdonato, poiché non mi sarei tolto la vita da me stesso.

Il mio padrone ha tentato prima di dissuadermi, poi, dietro le mie insistenze, mi ha aiutato a trovare un trafficante a cui ha dato 2500 dinari per il viaggio su un barcone.

Il viaggio in mare è durato tre giorni. Eravamo circa 300 persone ammassati nella stiva, dove c’era pochissima aria. Non avevamo acqua né cibo. Scene terribili: molti piangevano e picchiavano alla porta della stiva per poter uscire, poiché ormai l’aria per respirare era scarsissima. Tutti erano convinti di morire asfissiati. Recitavano la preghiera che i musulmani pronunciano nel momento della morte. Io ero lì tranquillo, pronto a morire, come desideravo.

Poi la Guardia Costiera italiana ci ha soccorso. Siamo stati imbarcati sulla loro nave e dopo un giorno e mezzo, siamo giunti in Calabria. Di qui, insieme ad altri sono stato condotto in un Centro di Accoglienza per profughi a Firenze”.

Parla solo arabo e pur conoscendo il francese, si rifiuta di parlarlo, in quanto lo considera la lingua degli oppressori che gli hanno distrutto la famiglia. E’ molto parco di parole e triste perché non era riuscito a morire durante la traversata in mare verso l’Italia. In ogni caso pensa ancora al suicidio, ma nello stesso tempo rifiuta ogni forma di terapia farmacologica.

Abbiamo deciso insieme che, in ogni caso, ci saremmo visti spesso a cadenza ravvicinata, soltanto per conoscerci meglio. Dopo un mese circa Mahamed “si sente meglio” e incomincia a non pensare più che la morte sarebbe stata per lui la soluzione ottimale. Quando gli chiediamo quali potevano essere, secondo lui, le cause del suo miglioramento, visto che non assume alcun farmaco, ci risponde: ”Sto meglio perché ho trovato qualcuno che mi ha ascoltato, senza la pretesa di guarirmi”.

Mahamed ci ha aiutato a capire che il bisogno di queste persone non è solo il cibo o un tetto, ma la necessità che qualcuno accolga il loro dolore, possa riempire, anche in piccola parte, il vuoto immenso che hanno dentro di sé per aver abbandonato moglie, figli, madri, padri, rispetto ai quali si sentono anche in colpa per essere andati via. Hanno bisogno che qualcuno legga e comprenda la loro profonda nostalgia per i loro luoghi che non è affatto dolce e che anzi, come un tarlo, rode e fiacca le risorse interiori, fino alla rassegnazione rispetto ad un destino incerto.

Insomma di fronte a loro dobbiamo essere persone che incontrano persone, alla pari, semplicemente.

 

*Psichiatra, Centro Medico “Stenone” Caritas , Firenze
  roccan19@gmail.com