Adele

(di Rosetta Papa, ginecologa e Direttore Tutela Salute Donna – ASL Napoli 1)

Adele aveva 12 anni.

Quando l’ho incontrata era già al 4^ mese di gravidanza.

Oggi siamo forse più abituati a pensare ad una dodicenne come ad una giovanissima donna, ma negli anni ’80 le ragazzine erano ancora ragazzine, nel pieno di quel guado fisico, psicologico, affettivo che caratterizza uno dei periodi di passaggio, secondo come complessità e inquietudine solo all’inizio della terza età. Adele dimostrava ed aveva esattamente 12 anni, non uno di più!
Piccola e paffuta, con gli occhi color nocciola, naturalmente sgomenti come di fronte ad un regalo inatteso, con due fossette che le bucavano le guance ogni volta che sorrideva;  nonostante tutto, lo faceva spesso.

«Perché, cosa è accaduto, è così giovane!»  chiesi alla madre con sincera apprensione.
Ma il mio dolore, per quanto sinceramente partecipato, era una sfumatura appena accennata se confrontato con quello della mamma di Adele. Non ricordo né la sua età, né la sua figura. Ma il colore dei suoi occhi indicava una vecchiaia anticipata, generata da una stanchezza e da un dolore primitivo, già antico.Gli anni avevano raggiunto la mamma di Adele prima ancora che invecchiasse. Il colore dei suoi occhi era come scolorito nel pianto per quella bambina trasformata in donna dal boss della zona, la luminosità era come impedita quanto la possibilità di denunciare e di ribellarsi, l’intensità era andata perduta nella sottomissione ad un potere spietato.
Adele era vittima dell’’amore’  di uno dei boss del quartiere, sposato e con una figlia della sua stessa età.

Quella di Adele mi apparve subito come una di quelle vite a cui in maniera crudele, addirittura immorale, viene sottratto il bene più prezioso, e cioè il tempo stesso della vita. Nelle aree disagiate infatti i tempi dell’infanzia e ancor più quelli della adolescenza subiscono una brutale accelerazione, il rispetto dei processi evolutivi, la costruzione progressiva, ma necessariamente lenta, della personalità non coincidono con la realtà che il quotidiano impone violentemente.
Bambini e bambine, ragazzi e ragazze vivono gli anni che separano l’ infanzia dalla adolescenza e quest’ultima dall’età adulta, attraversando riti di passaggio propri di altri tempi e di altre civiltà, o forse propri di tutti i tempi in quelle comunità in cui il diritto ad una vita dignitosa viene costantemente negato.

La violenza, il sopruso continuano a passare indisturbati attraverso i corpi delle donne, qualunque età abbiano. La sopraffazione sulle donne è un dato, ma in questo caso tutto era più dispotico, più truce, più spietato! Aver violentato una bambina di 12 anni era qualcosa di abietto, ma pretendere che avesse addirittura un figlio equivaleva a perpetrare l’abuso nel tempo, quasi a legalizzarlo nella costituzione di un nuovo, scellerato nucleo familiare.

Adele non avrebbe mai conosciuto l’amore sano, di e verso un coetaneo una volta raggiunta l’età per innamorarsi, non avrebbe mai distinto la sessualità dalla perversione, e non sarebbe mai più andata a scuola.

Prima di quell’incontro, il disagio per me equivaleva al degrado delle strade e alla povertà, alla violenza della droga e alla carenza di servizi, ma il disagio che mi era  davanti, aveva solo 12 anni, due occhi color nocciola, due fossette sulle guance che le imponevano un ostinato e ingiustificato sorriso, ma neanche un solo giorno che potesse chiamarsi domani. Disagio come infelicità ancor prima che come violenza. Ed ancora una volta mi assaliva quella sensazione di impotenza e di frustrazione.

La mamma, terrorizzata per le possibili conseguenze, vietò a me e a tutti gli altri operatori del Consultorio di intervenire in maniera istituzionale.

Adele partorì una bambina, con un parto spontaneo. durante il travaglio, mi confidò poi, fu attraversata da due paure: quella di morire e quella di vedersi portare via la bambina.

Tratto da “La Ragazza con il Piercing al Naso” Donne a Sud della Salute, pag 19

Ed Albatros 2012