Liberare e liberarsi dalle REMS (Emilio Lupo)

«…oltre le logiche violente dell’abbandono,
la Salute Mentale significa riappropriazione di relazioni
significative e di potere sociale».

Agostino Pirella

«Il movimento di Psichiatria Democratica
tende a rendere le competenze più flessibili
e vicine alla complessità dei bisogni,
poiché si è fatto consapevole dell’alibi permanente
che le rigidità forniscono all’esperto».

Agostino Pirella

 

Sul che fare dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e con l’attivazione, nelle singole regioni, delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), si apre, periodicamente, il dibattito. Un confronto che, il più delle volte, scaturisce in seguito a qualche notizia giornalistica, come a qualche sentenza in materia, e si sviluppa intorno alla presunta necessità di attivare nuovi posti letto nelle suddette strutture, oppure sul caratterizzare le REMS come luoghi di custodia, aumentando il personale di vigilanza, piuttosto che come luogo di transizione e, quindi, esclusivamente come tappa di un attento processo di inclusione. Operatori sanitari, magistrati, familiari, studiosi del diritto e mondo dell’informazione, si schierano sostenendo tesi a favore o contrarie, sciorinando dati, invitando alla riflessione intorno ai singoli fatti: si veda al riguardo il recente intervento di Marco Patarnello, magistrato di sorveglianza a Roma, e le riflessioni di Pietro Pellegrini, direttore del DSM di Parma. Un confronto che abbiamo apprezzato e salutato con favore e che ci auguriamo possa svilupparsi nei mesi a venire, e che sia in grado di rimettere al centro il progetto personalizzato per il singolo utente, che, nella nostra visione, costituisce il cuore e la stessa ragion d’essere della Risoluzione del CSM che ha varato i Protocolli Operativi (P.O.). Una ulteriore valutazione sullo stato dell’arte del dopo OPG va a questo punto fatta: il salto di qualità che aspettavamo, ovvero il riscatto della dimensione carceraria attraverso progetti condivisi, ancora non c’è stato. E’ un problema di risorse? Di mancanza delle motivazioni e dell’impegno che il problema richiede? Di entrambe? E’ una cultura regressiva della sofferenza psichica, da cui la concezione custodialistica della cura? E’ l’esito della restaurazione “modernizzata” di un modello paradigmatico oggettivante?

A quelli che, come noi, sono interessati ai temi della Salute pubblica da qualche decennio, la discussione sull’aumento dei posti letto nelle REMS che ha il carattere del déjà vu, suscita molta preoccupazione. Quanto accaduto di recente con la chiusura dei lager OOPPGG, era avvenuto in precedenza con i manicomi. La storia e l’esperienza insegnano che all’aumento dell’offerta del posto letto, l’istituzione risponde con la rapida occupazione dello stesso, inducendone il bisogno: una categoria che ha bisogno di occupare un letto, la si trova sempre. Nel caso specifico, si è inizialmente ritenuto che bastasse la sola stipula del Protocollo tra Tribunali, Aziende Sanitarie e DSM per affrontare e risolvere vecchi e nuovi problemi, all’indomani della chiusura degli OPG.

Di contro, come Psichiatria Democratica (PD) e personalmente, insieme al collega Cesare Bondioli, avevamo, difatti ed a più riprese sottolineato, nell’elaborare la nostra proposta di “Protocolli Operativi Vincolanti” (presentata, il 14 giugno 2018, dai dirigenti nazionali di PD alla VII Commissione del CSM), che era invece, assolutamente indispensabile realizzare, da subito, una sorta di schema-regolamento attuativo per ciascun Progetto Obiettivo. Abbiamo suggerito di operare sul campo, utilizzando lo strumento principe del progetto territoriale, titolato pienamente a verificare e monitorare con assiduità e nel tempo il percorso, ovviamente nella sicurezza dei cittadini.  Ma anche il solo in grado di porre argine alle “misure provvisorie” che occupano i posti nelle REMS: 253 persone, pari a ben il 41% degli ospiti delle REMS, secondo i dati presentati al Parlamento, il 26 giugno 2020, dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private delle libertà Mauro Palma. A conferma di questo nostro orientamento vogliamo ricordare che tutte le volte che abbiamo avuto modo di rappresentare come, secondo PD, andassero coniugati nella pratica i Protocolli Operativi Vincolanti, lo abbiamo fatto cadenzando minuziosamente modalità e tempi del percorso con dovizia di particolari. Eravamo convinti allora come oggi e ben consapevoli, che soltanto attraverso programmi personalizzati, elaborati per il paziente e con il paziente dalla equipe multi professionale allargata (che comprendesse cioè le figure competenti per gli specifici problemi e per gli specifici bisogni di quella persona in cura)  ne avremmo garantito la piena attuazione.

I Protocolli Operativi – e su questo ritengo si sia tutti d’accordo – lungi dal risolversi in un nuovo burocratismo, che immancabilmente esita nella ricerca del posto letto per il “matto”, debbono promuovere il concreto superamento di ogni concezione della cura come esclusiva attività intramuraria, cioè, di segregazione ed esclusione. E’ questa la sfida che il Consiglio Superiore della Magistratura aveva inteso lanciare, già con la delibera dell’aprile 2017, laddove sottolineava che: «…Le REMS sono, pertanto, soltanto un elemento del complesso sistema di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici autori di reato. L’internamento in REMS ha assunto non solo, come si è anticipato, il carattere della eccezionalità, ma anche della transitorietà: il Dipartimento di salute mentale competente, infatti, per ogni internato deve predisporre, entro tempi stringenti, un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato, poi inviato al giudice competente, in modo da rendere residuale e transitorio il ricovero in struttura».

Questo pertinente richiamo alla “transitorietà” delle Rems, merita una riflessione che parta sempre dalla nostra esperienza nel superamento del manicomio, prima e dopo la riforma psichiatrica. Transitorietà che va intesa in due accezioni: provvisorietà della struttura in quanto tale e limitata permanenza dei ricoverati nella stessa.

Psichiatria Democratica ha avuto sempre chiaro, e lo ha sostenuto fin dai tempi del dibattito che avrebbe portato alla legge n. 81/2014, che le REMS (le strutture necessarie per chiudere gli OPG non in tempi biblici che allora ancora non si chiamavano così) dovevano essere considerate, alla stregua del manicomio, istituzioni da superare, anche fisicamente, attraverso un costante lavoro di de-istituzionalizzazione. Senza questa tensione al superamento, senza questo orizzonte le REMS rischiano di permanere indefinitamente perché, come ci ricordava V. Marzi, «volere l’assenza [del manicomio]…ne produce l’assenza attraverso azioni concrete, innovative che determinano la non domanda di internamento»: nell’esperienza per superare il manicomio fu necessario coniugare il lavoro interno all’istituzione con quello dei servizi territoriali, i quali hanno realizzato l’alternativa al ricovero. Così dovrà essere anche per le REMS!

L’altra accezione della “transitorietà” prevista dalla legge e richiamata esplicitamente dal CSM riguarda la durata limitata dell’internamento. A tale proposito vogliamo ribadire che il progetto terapeutico individuale dovrà mirare a limitare la permanenza nella REMS al tempo minimo necessario per conseguire gli obiettivi previsti nel progetto stesso. Per ottenere la “transitorietà” occorre attuare una appropriata “selezione” dei soggetti destinati alla REMS, che è struttura sanitaria, con particolare riguardo ai c.d. “pazienti difficili”, per esempio evitando di abusare della c.d. “doppia diagnosi” nel caso di soggetti tossicodipendenti, la cui pericolosità sociale è solitamente causata dalla compulsiva ricerca della sostanza più che dalla malattia. Sappiamo, infatti, che per i tossicodipendenti, il ricovero in REMS è terapeuticamente inappropriato, e, quindi, per definizione non devono esservi inviati. Analoghe considerazioni potrebbero riguardare le persone con gravi disturbi di personalità antisociale, o psicopatia, che rappresentano, pensiamo, una fetta degli utenti di tali strutture. Di queste persone, bisognerà con urgenza ed attraverso uno sforzo, straordinario e collettivo, farsi carico fornendo risposte attraverso l’attivazione di progetti individuali e sociali. Senza tentennamenti e con crescente consapevolezza, ricercando risposte diverse dalle REMS, battendo strade nuove, originali e fuori dagli schemi tradizionali.  Bisognerà essere visionari, quanto basta a favorire col tempo una progressiva innovazione, attraverso risposte sempre più congrue, di volta in volta; bisognerà verificare il percorso attraverso le pratiche, così come è avvenuto nel corso degli anni con le multiformi applicazioni sul campo della legge 180, che è stata e rimane – anche in questo contesto del dopo OPG – nutrice feconda. In questo modo, probabilmente, riusciremo a centrare  l’obiettivo di rispondere ai loro reali bisogni e non a quelli che noi abbiamo deciso unilateralmente e riduttivamente di inglobare per contiguità, comodità o convenienza nell’ambito psichiatrico. La ricerca di percorsi originali e di nuove strade, ancorché  ardua e complessa, è – e vogliamo sottolinearlo con forza – un nodo centrale sul quale impegnarsi senza risparmio; e non va considerata come una delle opzioni o come un espediente introdotto per rimandare o spostare in avanti il problema, essa è un doveroso quanto urgente  impegno per superare l’attuale tendenza a dare “risposte” indifferenziate che poi, e in taluni casi, si rivelano improprie o incongrue. In altri termini, il problema è quello di rifuggire dalle vie brevi nel fornire risposte e, quindi, dal grande contenitore che, nei fatti, ripropone le pratiche onnivore del manicomio.

Come ci ricorda il collega P. Pellegrini: «la psicopatia costituisce una condizione molto complessa, sostanzialmente intrattabile con strumenti medici psichiatrici, farmacologici e psicoterapeutici» mentre sembrerebbero più idonei «strumenti di tipo psicosociali o misure alternative o non convenzionali» senza dimenticare quanto già verificato con la chiusura degli ospedali psichiatrici quando «la gestione di comportamenti aggressivi (in un) cambio di contesto, normali ambienti di vita, un approccio non custodialistico e quote crescenti di libertà e autodeterminazione hanno permesso di ridurre notevolmente i comportamenti aggressivi, di migliorare autocontrollo e responsabilità e di superare completamente le contenzioni. E’ un esempio di come la diversa offerta di relazione e di cura modifichi anche l’espressione delle manifestazioni comportamentali (patologiche e non) e la loro gestione»[3] .

Dobbiamo essere ben consapevoli che è necessario contrastare i ricoveri impropri per evitare l’esaurimento dei posti nelle REMS e la formazione delle liste d’attesa, cui consegue la richiesta di nuovi posti letto. Insistiamo perché tale dinamica è una delle cause maggiori della regressione manicomialistica, per cui va assolutamente evitata. Vogliamo anche sottolineare, sempre richiamandoci all’esperienza di chiusura del manicomio: le pratiche di deistituzionalizzazione, precedenti e successive a quella che viene indicata anche come legge Basaglia, hanno anche consentito di superare parte dei pregiudizi sui pazienti psichiatrici e hanno contribuito a implementare la legge stessa; ci auguriamo che accada la stessa cosa per il superamento delle REMS. L’attuazione di pratiche che rendono evidente la possibilità di alternativa all’internamento, potrà, infatti contribuire alla modifica, da più parti auspicata, del codice penale sul tema della imputabilità. Su questi aspetti si coglie un gap tra dibattito nell’ambito scientifico/psichiatrico e in quello giuridico, gap che sarebbe tempo di colmare.

Tornando al tema centrale del che fare oggi, vale la pena ribadirlo, quella che va affrontata è la complessità della esistenza, rifuggendo da ogni concezione riduzionista della cura. Riteniamo altresì molto importante la presenza costante dell’avvocatura all’interno del gruppo di lavoro multidisciplinare fin dal suo costituirsi, sia per la necessaria funzione di raccordo, sia per il contributo teorico/operativo che potrà fornire all’equipe. L’avvocatura deve essere presente – a nostro avviso – anche durante la formazione congiunta di tutte le figure coinvolte nel procedimento, che si  auspica possa svilupparsi organicamente,  in tutte le realtà coinvolte, così come opportunamente previsto nella risoluzione del CSM, «…perché siano previste la migliore cura e possibilità riabilitativa alla persona…» (si  veda ad es. il Protocollo Operativo in tema di misure di sicurezza psichiatriche per il Distretto di Milano, 12 settembre 2019).

Riteniamo, inoltre, che la nostra proposta di affidare l’accertamento peritale al Sanitario del DSM che ha in carico o avrà in carico l’utente sia non solo innovativa dal punto di vista teorico ma che abbia anche importanti ricadute pratiche; infatti il curante è in possesso di un notevole corredo di notizie cliniche, sociali e familiari, indispensabili per ben orientare l’intera equipe (del SSN e del Tribunale) sul percorso da intraprendere, informazioni di cui un eventuale perito esterno sarebbe inevitabilmente privo. L’impostazione corale auspicata dalla Risoluzione del CSM, ovvero di un costante monitoraggio attivo dell’intero  iter, farà da indicatore al percorso e, nel contempo, sosterrà anche altre decisioni, tra le quali annoveriamo la scelta del luogo ove scontare la misura di sicurezza e la sua stessa durata. Garantirà, insomma, che quanto congiuntamente deliberato, risulti essere anche il frutto di un ampio dibattito tra i differenti saperi degli attori in campo.

Il confronto/scambio tra operatori con percorsi professionali, saperi e pratiche diverse, non potrà che risultare sempre più funzionale alla scelta della tipologia della misura stessa. Così come sarà un arricchimento reciproco il monitoraggio costante del percorso terapeutico – riabilitativo elaborato insieme, con ricadute positive per l’utenza. Così come risulteranno sempre più utili alla coesione dell’intera equipe allargata, gli incontri periodici di formazione e di aggiornamento, espressamente previsti dal CSM nell’articolato della Risoluzione del 24 settembre 2018.

Un ulteriore elemento di riflessione si pone se si considera che alcuni reports indicavano in ben 1/3  degli ospiti attuali delle REMS gli autori di reati modesti, spesso di natura bagatellare e di scarso allarme sociale; le  sanzioni per questi reati non devono essere scontate nelle Residenze per le misure di sicurezza: si tratta, ancora un volta, di rispettare l’indicazione della REMS come extrema ratio.

E’ importante ribadire, per quanto possa sembrare scontato che pur essendo indispensabili, non sono sufficienti i soli schemi di convenzione tra Tribunali e Aziende Sanitarie, e che, anzi, questi possono diventare un alibi qualora le disposizioni in essi contenute non vengano, poi, compiutamente rispettate e rese operative. Sono i Protocolli Operativi, insomma, se saranno tempestivamente e congiuntamente attivati, a costituire il “luogo sicuro” in cui  nessuno si sentirà più solo e che la loro piena attuazione migliorerà la qualità della convivenza civile.

Quel che più ci preme sottolineare, relativamente all’importanza dei P.O.  è che essi – come la legge di riforma psichiatrica – hanno straordinarie potenzialità di promuovere una evoluzione teorica e operativa, sia dal punto di vista giuridico che da quello più generalmente culturale: di questo ancora non si ha, a nostro avviso, piena consapevolezza. Siamo convinti che ciò che ha reso possibile la chiusura degli OPG e, quindi, il varo dei Protocolli Operativi (P.O.) non sia altro che l’ulteriore evoluzione del percorso storico, naturale e plastico, iniziato col varo della legge di riforma psichiatrica.  Noi di PD in particolare dobbiamo essere coscienti del fatto che è cominciata una nuova, faticosa e lunga marcia di deistituzionalizzazione per il superamento delle REMS, e che i Protocolli Operativi devono costituire, sempre più, uno strumento di intervento nel quotidiano, per realizzare quella rivoluzione culturale iniziata con la legge 180 nel 1978 di cui la chiusura degli OPG è stata una ineludibile tappa.

E’ quanto mai attuale, perciò, l’affermazione di Franco Basaglia: «non è importante vincere ma convincere», e nel contempo non si può demandare il destino di migliaia di donne e uomini all’esclusivo ambito tecnico. E’ tempo di allargare di nuovo il cerchio del contagio, di ascoltare, dibattere e proporre: sarà questa stessa modalità di procedere, a garantire la necessaria sicurezza collettiva. E’ tempo di ritornare a schierarsi. Associazioni e movimenti devono, perciò, riprendere a svolgere un costante ruolo di stimolo verso le Istituzioni contribuendo in tal modo a rigettare ogni forma di neo-manicomializzazione, ed essere, ancora una volta, argine contro il ritorno ai tempi bui della custodia e della espulsione.

Ricordo di Marcello Buiatti

Un lutto per Psichiatria Democratica: il 28 ottobre scorso ci ha lasciato Marcello Buiatti, illustre genetista di fama internazionale, epistemologo, Maestro di scienza e democrazia, un Giusto da sempre presente nelle iniziative della nostra Associazione.

Come genetista ed epistemologo ha studiato la complessità dei sistemi biologici e si è occupato di tutelare la biodiversità diventando un punto di riferimento del movimento ambientalista.

Da sempre impegnato sul piano politico, anche a partire dalla per lui indelebile esperienza familiare di perseguitato in quanto ebreo anche se allora era solo un bambino; in anni recenti, cogliendo la deriva revisionista e neofascista che si faceva strada anche nella politica italiana aveva voluto testimoniare il suo impegno iscrivendosi all’ANPI.

E’ sempre stato presente nel dibattito di Psichiatria Democratica non solo per i suoi rapporti familiari in quanto coniuge di Anna Anglani – neuropsichiatra infantile, cui va il nostro affettuoso pensiero – e cognato di Vieri Marzi con cui aveva sviluppato, in un proficuo scambio dialettico, un approfondimento dei temi legati al rapporto tra scienze “dure” e scienze umane con particolare riferimento al neo determinismo che si andava affermando da parte della psichiatria biologica.

Di questo suo sapere ci ha fatto dono in numerosi interventi a nostri convegni e seminari, aiutandoci a capire la fallacia di un “modo di pensare presente nelle società umane, da quando si sono organizzate in modo gerarchico, che tende ad attribuire all’informazione genetica un ruolo predominante nel determinare il fenotipo comportamentale degli esseri umani ‘solidificando’ così le gerarchie di generazione in generazione e, nel contempo, attribuendole a non modificabili caratteristiche biologiche” (M. Buiatti – Lo stato vivente della materia – UTET, 2000).

Con la semplicità che è solo dei grandi, dei Maestri, ci ha introdotti nel complesso rapporto tra genetica ed epigenetica, specie in ambito comportamentale, invitandoci a riflettere che “attribuire infatti la causa dei comportamenti “cattivi” ai geni libera implicitamente dalla responsabilità”, mettendo in luce le implicazioni politiche di questo modo di pensare: “perché discutere delle politiche da attuare, di economia, di riforme sociali quando, in fondo in fondo, l’unico modo per migliorare l’umanità degli esseri umani è far sì che abbiano il maggior numero di geni ‘buoni’?”  (M. Buiatti – La biodiversità – Il Mulino, 2007).

Ci mancheranno la sua ironia, la sua cultura, la sua scienza, il suo essere “politico”.

Come si fa? Salute mentale di territorio e ripartenza (Antonello D’Elia)

In piena emergenza COVID la necessità di investire in salute è sotto gli occhi di tutti.  Arriveranno, si spera, fondi anche alla salute mentale che andranno gestiti: chi deciderà come verranno impiegati? Tra i temi centrali delle attività di Psichiatria Democratica riproponiamo quello della formazione.

 

Chi saranno le persone che lavoreranno nei servizi di salute mentale? Sapranno cosa fare o applicheranno protocolli, seguiranno linee guida, useranno il buon senso o, è possibile, asseconderanno i loro personali convincimenti? L’attesa dei fondi europei ha già attivato fantasie da cuccagna e appetiti per lobbisti. Per quanto riguarda la Salute Mentale il loro impiego andrà orientato e  monitorato per evitare che vadano in altre mura, letti, suppellettili d’arredo, assunzioni di medici e psicologi provenienti dalla asfittica formazione accademica e vengano trascurate altre figure professionali decisive per una buona salute mentale territoriale come infermieri, educatori, riabilitatori. Certamente i luoghi della salute devono essere congrui e decorosi per spazi e accoglienza, come spesso non sono CSM e Centri Diurni. Ma se la cura degli spazi è importante non meno quella delle persone che li abiteranno, l’auspicato personale del futuro. Una salute mentale di territorio richiede competenze, organizzazione, consapevolezza delle prassi efficaci, capacità di confronto con le esperienze migliori esistenti e di adeguamento ai contesti sociali in mutamento. Siamo certi che queste abilità non provengono dalle aule universitarie ma da anni di pratiche ed esperienze di lavoro con le persone, di progetti realizzati, di sfide accolte e vinte. Il laboratorio sociale e sanitario dei servizi territoriali ha costituito in passato il motore di queste attività e il presidio di una cultura trasmessa attraverso lo scambio pratico tra generazioni di operatori, prima ancora che attraverso l’apprendimento scolastico. Nei servizi sempre più sguarniti e occupati da personale stanco e anziano lo scambio generazionale è da tempo venuto meno, basti controllare i dati sull’età media degli operatori della psichiatria italiana. Eppure viene auspicata una rivoluzione culturale, magari rievocando quello straordinario movimento di persone e idee che portò alla legge 180 e alla sua applicazione. Dobbiamo allora ricordare che un lavoro territoriale di comunità rispondente a criteri di efficacia, capace di confrontarsi anche con i suoi esiti qualitativi e quantitativi, di governare processi complessi come quelli che possono condurre allo sviluppo di autonomie personali, a una reale inclusione sociale, all’attivazione di risorse umane, familiari e sociali, richiede investimento e apprendimento: in una parola formazione.

Proviamo allora a elencare, per difetto, una serie di obiettivi fondamentali per l’acquisizione di capacità e competenza pratiche. Non un elenco di precetti ma una serie di aree d’azione ciascuna delle quali, come tradizione per Psichiatria Democratica, rimanda a proposte concrete per realizzarsi. Ciascuna richiede apprendimento e insegnamento. Ci chiediamo allora “come si fa” a fare quello che è richiesto nel lavoro di salute mentale territoriale, l’unico in cui ci riconosciamo.

Come si fa a svuotare i grossi contenitori residenziali e trasformarli in piccoli luoghi di abitazione? Come si fa ad opporsi alla gestione totalizzante delle vite che avviene attraverso l’offerta di posti letto?

Come si fa a far capire, agli operatori e non solo, che le persone trascorrono molto più tempo fuori dai CSM e dai luoghi della psichiatria che al loro interno, e quindi considerare il ‘fuori’ come il contesto da rendere accessibile, vivibile, condiviso e non ostile?

Come si fa a non usare le REMS come sostituti ‘agili’ degli OPG?

Come si fa a far conoscere ai professionisti della salute mentale, ai decisori politici e ai magistrati i Protocolli Operativi, frutto del lavoro competente di Psichiatria Democratica e rifluiti in una risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, che potrebbero trasformare il braccio di ferro con i giudici in una collaborazione che aiuta tutti gli attori in campo?

Come si fa a fare proposte di inserimento lavorativo reali e non di vuoto intrattenimento, attivanti e capaci di includere socialmente le persone seguite dai servizi di salute mentale?

Come si fa a far diventare la co-progettazione e il budget di salute degli strumenti operativi reali e non degli slogan consolatori per un futuro che non arriva mai, condividendo i progetti con la cooperazione integrata nell’operatività dei servizi e non subappaltata?

Come si fa a trattare i familiari non da colpevoli, né da nemici né da pedine strumentalizzabili nella lotta interna alle istituzioni?

Come si fa a ricoverare senza pensare che il paziente sia un pericoloso criminale da neutralizzare e che il TSO sia una punizione poliziesca per la sofferenza venuta fuori sotto forma di crisi?

Come si fa a non legare le persone al letto pensando che legando i corpi si pieghi la loro mente?

Come si fa a dimettere senza abbandonare in luoghi di parcheggio e senza prolungare reclusioni in ricoveri accreditati?

Come si fa usare i farmaci senza delegare a iniezioni, pillole e gocce il rapporto umano credendo che la chimica possa risolvere dove mancano le relazioni?

Come si fa ad utilizzare in maniera sapiente i numeri dell’epidemiologia senza accumularli per dovere istituzionale o piegandoli a ragioni di comodo?

Come si fa a riconoscere che la dimensione interprofessionale delle èquipe è l’unità di lavoro in salute mentale territoriale e non un assortimento generico di personale che non è addestrata a lavorare in gruppo?

Come si ad imparare che il rispetto non è un tema morale ma una modalità relazionale per abbattere le diseguaglianze e promuovere l’autonomia decisionale delle persone?

Come si fa ad imparare ad ascoltare senza passare subito ad agire?

Come si fa a utilizzare gli obiettivi di budget aziendali e gli indicatori ad essi connessi come strumenti al servizio di operatori e utenti e non come trucchi per risparmiare senza tenere conto della qualità o per spacciare per efficienza gli interessi di parte?

Come si fa a smettere di fare psicodiagnostica per i minori senza fare terapia?

Come si fa ad avere a che fare con le persone che provengono da paesi lontani nella disperazione senza considerarli d’ufficio delinquenti, approfittatori o malati?

Per passare da una astratta precettistica a un progetto formativo organico sarà necessario integrarlo negli obiettivi del rilancio della salute mentale territoriale che potrà derivare dai finanziamenti in arrivo. Se intesi come temi fondanti, avranno bisogno di indicazioni vincolanti, di agganci legislativi, di regolamentazioni stringenti che si oppongano alle degenerazioni sempre in agguato per ideologia o sciatteria e, infine, anche di contesti di apprendimento e monitoraggio con il coinvolgimento attivo degli operatori. Per ciascuno di questi unti che descrivono almeno una parte delle attività centrali nel lavoro di salute mentale possono esserci soluzioni specifiche di formazione e, al tempo stesso, modalità applicative chiare che indirizzino verso pratiche attente ed avanzate e vadano verso lo sviluppo di autonomia per le persone sofferenti e i loro familiari. Il personale che arriverà in salute mentale dovrà confrontarsi con queste pratiche e misurarsi con la loro attuazione. Abbiamo bisogno anche in salute mentale di investire in persone e educazione se crediamo sia fondamentale che i soldi che arriveranno non finiscano in cose e non anche in sapere.

Psichiatria Democratica e le politiche di salute mentale in Basilicata

10 OTTOBRE
GIORNATA NAZIONALE SALUTE MENTALE

Attualmente il dibattito sulla sanità lucana è concentrato, giustamente, sulle sorti dell’ospedale di Matera, e i servizi sanitari territoriali?
In particolare, i Servizi per la Salute Mentale?
Parliamone oggi, 10 ottobre, Giornata Nazionale della Salute Mentale.
Non è un aspetto indifferente.
Il dato è che il 4% della popolazione soffre di disturbi psichiatrici gravi, disturbi per i quali è fondamentale la qualità dell’assistenza territoriale.
Sono dolenti note!
I dipartimenti di Salute Mentale negli ultimi 10 anni sono stati ridotti da 5 a 2 (provinciali) e si va verso il dipartimento unico. Non è un problema indifferente per gli operatori che oggi giorno devono offrontare bisogni complessi, anche sul piano organizzativo e che necessitano di servizi in rete.
La Basilicata, terra di esperienze esemplari, non è più attrattiva per il personale sanitario. Mancano psichiatri, psicologi e personale infermieristico.
Praticamente inesistenti le figure professionali innovative (educatori, tecnici della riabilitazione).
I Servizi sia territoriali che ospedalieri devono affrontare emergenze di ogni tipo, quasi sempre improprie, abbandoni, problematiche sociali, persone anziane. Sempre più utenti vengono accolti nelle case famiglie e nelle comunità terapeutiche in mancanza di un’alternativa valida.
Oggi è necessario rilanciare politiche di salute mentale di comunità:
Riorganizzare la rete regionale dei servizi, i progetti di promozione e prevenzione, I tavoli tecnici regionali.
Rendere i servizi accessibili e accoglienti alle esigenze della popolazione.
Organizzare percorsi di cura personalizzati per i pazienti gravi.
Implementare i servizi di domiciliarita’.
Orientare la riabilitazione sulla quotidianità ed il benessere dell’individuo.
Superare la lungodegenza nelle comunità.
SI PUÒ FARE
L’ABBIAMO GIÀ FATTO

PSICHIATRIA DEMOCRATICA
MATERA

Incontro con Daniele Mencarelli

Incontro con Davide Mencarelli

La riapertura delle scuole al tempo del COVID (Enrico Nonnis)

Ad oggi, fine agosto, l’apertura dell’anno scolastico è ancora incerta nei tempi e nei modi. Certo si inizierà il 14 settembre, per poi richiudere in molte Regioni per via delle elezioni; Ma non si sa se per tutti gli alunni oppure solo per alcuni a giorni (o settimane) alterni.
Per i bambini più picccoli non si è deciso niente, i Comuni che gestiscono gli Asili Nido sono stati lasciato da soli, senza alcuna indicazione da parte del governo.
Sicuramente tutto ciò è in linea con il ‘paese del far finta’ che è diventata l’Italia: a parole tutti attenti e pronti a ribadire la necessità e l’importanza della scuola, ma nei fatti nessuno che si chieda come è stato ridotto il nostro sistema educativo.
Tanti segnali diretti ed indiretti ci segnalano come la scuola sia specchio della decadenza del paese.
C’è voluto il Covid per mettercelo davanti agli occhi e non è ancora finita; Infatti la scuola fin’ora è stata chiusa, ma con l’apertura si evidenzieranno tutte le manchevolezze non solo strutturali e logistiche degli edifici scolastici ma soprattutto la mancanza di un progetto educativo moderno, attivo ed adeguato ai tempi.
È come se la scuola vivesse per inerzia senza un disegno autorevole e propositivo; Il sistema educativo mostra solo un aspetto conservatore, vecchio, viene da dire quasi reazionario.
Ovviamente fatte le dovute eccezioni, che nello sfacello generalizzato, esistono e non sono poche e sono eccellenti, ma non bastano, nonostante l’impegno della maggior parte del corpo docente, spesso lasciato solo ad affrontare situazioni complesse senza strumenti adeguati.
Nel ‘paese del far finta’ le eccellenti leggi derivate da un impulso di idee alla fine degli anni ’70 si sono svilite nella loro applicazione ormai esclusivamente formale.
I più fragili fanno da cartina di tornasole all’inadeguatezza del nostro sistema educativo, lo vediamo con l’inclusione dei diasbili nelle scuole di ogni ordine e grado, vero orgoglio nazionale, unici al mondo ad avere normato la materia più di 40 anni fa: la L.517 è del 1977, un anno prima della L.180 che ha sancito la chiusura degli Ospedali Psichiatrici.
Cosa è accaduto in questi anni’? Abbiamo assistito ad una ‘escalation’ di richieste di cerificazioni per avere l’insegnante di sostegno, per avere l’educatore in classe.
In sintesi per poter affrontare reali problematiche di gestione educative che nulla hanno a che fare con il bisogno dell’alunno disabile ed hanno molto a che fare con le difficoltà del sistema scolastico che sembra aver perso la capacità di risolvere e gestire i problemi tramite gli strumenti della pedagogia; Strumenti che dovrebbero essere il pane quotidiano delle attività educative soprattutto nella scuola primaria quando è più arduo il compito della scolarizazione.
Tutto ciò porta ad una deriva, mi scuso per i brutti termini, ‘medicalizzante’ e ‘psicologizzante’, come se medici e psicologi potessero supplire ad una vera e propria abdicazione al ruolo educativo del sistema scolastico.
Come se tutto ciò non bastasse in questi ultimi anni si è aggiunta la questione dei Disturbi Specifici di Apprendimento.
Da quando è stata promulgata nel 2010 la legge n° 170 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” che riconosce la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia quali disturbi specifici dell’apprendimento, le segnalazioni da parte della scuola e le conseguenti diagnosi sono aumentate in maniera esponenziale; in alcune classi, soprattutto delle secondarie superiori vi sono 6-7 alunni diagnosticati; in pratica il 25 – 30 % della classe presenta il disturbo.
Se è vero che esiste il Disturbo di Apprendimento deve esistere anche il Disturbo di Insegnamento; ma nessuno si prende la briga di fare una diagnosi differenziale.
Insomma, c’è qualcosa che non va se le patologie aumentano in relazione alle leggi.
Il termine disturbo d’apprendimento è un termine ‘ombrello’ che comprende una enorme varietà di situazioni, la maggior parte delle quali dovrebbe essere affrontata con strumenti –pedagogici, educativi e didattici e non certo medici o psicologici, utili senz’altro solo in una minoranza di casi.
La Regione Lazio recentemente, in applicazione di una norma della L 170 del 2010, riconosce le valutazioni effettuate presso centri privati autorizzati quando il servizio pubblico non riesce in tempi utili ad effettuare le valutazioni richieste.
Naturalmente si guarda bene dal rinforzare i servizi, ormai totalmente depauperati di personale e sempre più oberati di richieste tra le più varie (tribunali, scuola, enti locali, ecc.).
Il risultato sarà che i centri privati autorizzati dopo un periodo di valutazioni effettuate a spese delle famiglie chiederanno l’accreditamento alla Regione o saranno le famiglie stesse a rivendicare un rimborso spese, visto che i disturbi d’apprendimento sono inseriti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Tutto ciò è indicativo della mancanza di una idea complessiva delle reali esigenze del mondo dell’infanzia e tale stato di povertà culturale e politica rischia di creare il circolo vizioso della deresponsabilizzazione: se c’è un problema è sempre qualcun altro che deve risolverlo e farsene carico.
Se la scuola ha difficoltà nel gestire e scolarizzare gli alunni è bene che se ne occupino i medici; se si individua un problema sociale è la scuola che dovrebbe risolverlo e così via.
I servizi sanitari stessi man mano perdono di vista lo scopo per cui sono stati creati e viene meno quella unità di intenti tra sistemi (Pedagogico, Sociale, Sanitario) che è l’unica maniera per risolvere veramente i problemi e creare i presupposti per una crescita responsabile dei nostri bambini ed adolescenti.

Mi raccomando, non sia troppo basagliano (Ernesto Venturini) – l’esperienza antimanicomiale di Gorizia

“Mi raccomando: non sia troppo basagliano” è l’esortazione che l’assessore alla sanità della Provincia di Gorizia rivolge a Casagrande, nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico, invitandolo a scrivere il programma annuale delle attività. Siamo nel 1972; Casagrande è succeduto a Basaglia e a Pirella nella guida del famoso ospedale aperto di Gorizia. È un momento particolarmente difficile per le sorti dell’esperimento basagliano.

L’esperienza mostra di sé stessa, come un Giano bifronte, due immagini contraddittorie: da un lato, la legittimazione di un progetto “rivoluzionario”, attraverso il successo di un libro – “L’Istituzione negata” – compendio rappresentativo del cambiamento attuato – e, dall’altro lato, il suo più bruciante insuccesso – l’uxoricidio perpetrato da un paziente – che sembra rimettere in discussione la proclamata non pericolosità del folle. Sono molti a pensare, in quel momento, che l’esperienza, nata sull’onda delle “utopie” del 68, sia ormai definitivamente finita. Ma la risposta di Casagrande, non solo non sconfessa l’indirizzo percorso fino allora, ma lo radicalizza. Si tratta di un vero coup de théâtre, che pone, di nuovo, Gorizia al centro dell’attenzione scientifica e politica, sia in campo nazionale che internazionale. I medici dell’Ospedale psichiatrico denunciano la responsabilità degli amministratori e dei politici, che impediscono l’apertura dei servizi territoriali, necessari per l’integrazione sociale dei pazienti. Per questi motivi avanzano la richiesta di una dimissione “in blocco” dei ricoverati e presentano, contemporaneamente, le proprie dimissioni. È una notizia sensazionale, che riaccende, dopo quattro anni di silenzio, l’interesse dell’opinione pubblica su quell’ospedale. Il mondo scientifico e quello politico si dividono. Per alcuni è solo una provocazione, per altri è una coraggiosa denuncia contro lo stato di arretratezza in cui versa l’assistenza psichiatrica in Italia. Per circa due mesi l’argomento tiene banco sulla stampa locale e su quella nazionale. Vanno in onda servizi televisivi, radiofonici. Si svolgono numerosi dibattiti, in un clima di forti polemiche. C’è chi critica quella scelta, ritenendola eccessivamente mediatica e chi, invece, si schiera pubblicamente a favore della necessità di urgenti riforme. È un momento cruciale nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici.

La pagina goriziana anticipa la legge di riforma (la legge180), che sarà promulgata pochi anni dopo. Ma come si è arrivati a queste clamorose posizioni? Qual era, propriamente, la posta in palio dietro a questo scontro tra i medici e l’Amministrazione Provinciale? Il libro cerca di dare una risposta a questi interrogativi, attraverso documenti inediti, testimonianze, racconti autobiografici, riflessioni a tutto campo sui valori e limiti dell’esperienza goriziana.

Il libro narra il passato, ma lo sguardo è rivolto al presente, all’attualità dei dibattiti sui diritti civili delle minoranze, degli anziani e dei migranti. Il manicomio per legge non esiste più, ma la logica manicomiale è ancor presente in tante istituzioni sanitarie e d’assistenza. E se, oggi, i temi e gli obiettivi possono sembrare diversi, l’impegno e le strategie di lotta mantengono, ancora, la loro bruciante attualità. Può forse essere utile ricordare, allora, proprio lo “spirito” degli anni 70, quando l’Italia, attraverso conflitti, dibattiti, esperienze coraggiose, riuscì a raggiungere importanti risultati, fino a poco prima, del tutto impensabili: la legge del divorzio, quella della maternità assistita, le riforme della Sanità e dell’Università. In questo libro ci riferiremo, in particolare, ai movimenti sociali e politici che portarono alla promulgazione della legge di riforma della psichiatria. Una legge, che rimane nel panorama internazionale uno dei più importanti prodotti del “made in Italy”. D’altronde è lo stesso Norberto Bobbio che ci ricorda come “la 180” sia stata l’unica, vera riforma realizzata in Italia nel dopo guerra. La vicenda goriziana mostra che un processo di emancipazione, anche quando sembra prossimo a una sconfitta, può sempre rovesciarsi in una vittoria: occorrono coerenza e una tenace fiducia nelle possibilità del cambiamento. Quegli avvenimenti comprovano, come ha detto Basaglia, che” l’impossibile può diventare possibile”.

Il libro è diviso in quattro capitoli: “La storia”, “Frammenti autobiografici”, “Opinioni”, “Riflessioni conclusive”. Una breve prefazione informa il lettore sugli avvenimenti che hanno preceduto quelli raccontati in questo scritto. Si entra, poi, nel vivo del racconto descrivendo il momento di massima tensione mediatica. Gli interrogativi, i dubbi sorti da quell’evento spingono a ricercarne le ragioni, andando a ritroso nel tempo. Tutti gli avvenimenti dell’Ospedale aperto di Gorizia sono contestualizzati nel panorama, più ampio, di quanto, in quegli anni, stava accadendo, sia in campo nazionale, che in quello internazionale. Alla descrizione “oggettiva” degli accadimenti si affianca il punto di vista “soggettivo” degli autori, che è raccontato, con uno stile informale e colloquiale. Gli aneddoti, i ricordi personali aiutano, spesso, nella ricostruzione di una vicenda, quanto possono farlo i documenti ufficiali. Nel terzo capitolo, intitolato “Opinioni”, sono inseriti tre punti di vista, diversi da quelli degli autori. Il primo di questi “sguardi” è quello degli infermieri dell’ospedale goriziano che espongono le loro considerazioni e valutazioni. Viene dato spazio, poi, al pensiero critico di un famoso giornalista – Sergio Zavoli. L’ultimo sguardo è, infine, quello di una professoressa di un’università straniera: la sua approfondita conoscenza di questa materia si accompagna a un’opportuna distanza spazio-temporale, che può rendere maggiormente oggettiva l’analisi degli avvenimenti.

Le riflessioni conclusive, riportate nel quarto capitolo, cercano di riannodare i nodi della storia, offrono nuovi approfondimenti, riaffermano il potere dell’utopia contro chi vorrebbe far dimenticare il valore del pensiero basagliano.

Omaggio a Sergio Zavoli

Un anno fa, circa, sono andato a trovare Zavoli nella sua casa di Bracciano. Desideravo discutere con lui il libro che, insieme con Domenico Casagrande e Paolo Serra, stavo scrivendo sull’esperienza dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, coraggiosamente aperto da Franco Basaglia negli anni ’60. Mi accompagnavano, per l’appunto Paolo Serra e Massimo Salvucci, che stava curando la promozione dell’iniziativa.

Zavoli, come appare in questo libro, pubblicato dall’editore Armando Armando con il titolo “Mi raccomando: non sia troppo basagliano”, aveva svolto un ruolo importante nel promuovere quell’esperienza. Il suo servizio giornalistico su TV7, intitolato “I giardini di Abele”, aveva fatto conoscere al grande pubblico quell’esperienza innovatrice ed era stato un grande successo di auditing.

In quel giorno di agosto volevamo rendere omaggio al giornalista, scrittore, uomo politico, ma volevamo conoscere anche la sua opinione sul libro e avviare una riflessione critica su quel lontano passato e sul nostro presente così complesso. Zavoli ci aveva accolto con grande cordialità e il colloquio aveva assunto toni di grande intensità. Il suo ricordo di Franco e Franca Ongaro Basaglia era improntato a una grande riconoscenza e amicizia. Zavoli poneva l’accento sul valore e sull’attualità dell’esperienza goriziana e descriveva il suo costante impegno sui temi della salute mentale. Un impegno che era continuato nel sostenere l’iniziativa della senatrice Basaglia in Parlamento: Franca Ongaro Basaglia era riuscita, infatti, a promuovere il primo Progetto Obiettivo Salute Mentale, che colmava, con ritardo, le omissioni della legge di Riforma della Psichiatria.

Quell’incontro di agosto era diventato, alla fine, un’intervista che avrei inserito nel libro, con l’approvazione dello stesso Zavoli: una delle sue ultime interviste, se non, forse, l’ultima.

Zavoli si era mostrato estremamente lucido, soddisfatto per poter riflettere su quegli eventi così importanti della sua storia personale. Aveva, poi, sottolineato la sua disponibilità ad accompagnare il “lancio” del libro.

Il tempo passava, ma era diventato difficile per noi e anche per lui, come aveva dichiarato, dover interrompere quell’incontro. Solo a sera inoltrata c’eravamo lasciati, ripromettendoci altri incontri e scambi d’idee.

Ernesto Venturini

Su Monitor continua il dibattito sulla psichiatria pubblica in Campania

su Monitor:

nuovo contributo al dibattito sulla psichiatria pubblica in Campania: 

intervento del dr. Emilio Lupo, responsabile dell’organizzazione di Psichiatria Democratica (link)