L’aiuto psicologico che non arriverà (Antonello d’Elia)

Il cosiddetto Bonus Psicologi non entrerà nel PNRR come auspicato da chi l’aveva promosso e inseguito. Una buona notizia per alcuni, un’occasione mancata sostengono altri. Dichiaro subito di essere tra i primi, ma vediamo di cosa si tratta.

L’emergenza Covid costituisce una fantastica occasione per tanti, non ultimi gli psicologi cioè coloro che praticano la cura psicologica (che non è “la psicologia” e basta). A dire il vero una legge del 1989 aveva regolamentato la pratica della psicoterapia e previsto che un laureato in Psicologia non fosse abilitato all’esercizio della professione se non dopo aver conseguito un diploma di specializzazione quadriennale. Tacerò sul fatto che ai medici che praticano la psicoterapia non è richiesta alcuna formazione specifica perché, se psichiatri, per grazia corporativa, sarebbero psicoterapeuti. Ma tant’è… Il Bonus, come era stato concepito, non prevedeva alcuna distinzione tra psicologi generici o psicoterapeuti specializzati che diventano pari. Tanto si può sempre imparare qualcosa con corsi brevi la cui offerta è diventata sterminata negli ultimi mesi.

Le emergenze, si diceva, sono grandi occasioni per costruire un futuro non emergenziale: il provvedimento, se approvato, avrebbe consentito a una moltitudine di laureati di lavorare in campo psicologico. Quale migliore circostanza di una pandemia virale pubblicizzata come pandemia anche psichiatrica, con supposti aumenti vertiginosi di diagnosi di depressione, ansia, panico, tentativi di suicidio. Forse che non servirebbe qualcuno in grado di ascoltare, evitare troppi farmaci, aiutare ad elaborare i complessi vissuti, individuali e collettivi con cui tutti siamo tuttora confrontati? Certo: l’introduzione del Bonus avrebbe permesso l’accesso a ipotetiche cure per tutti coloro che ne sentano il bisogno: coppie litigiose o violente, single ansiosi, anziani, vecchi e non dimentichiamo anche i bambini, costretti a DAD e altre vessazioni varie che potrebbero trarne qualche beneficio.

Se a scadenza e il professionista non è professionalmente addestrato, una buona parola e un consiglio ben dato saranno pur sempre meglio di niente! Poi chi avesse voluto e potuto avrebbe proseguito da solo, accollandosi le spesa. Questo scenario, per ora sventato, non contempla uno Stato premuroso che prende a cuore la psiche dei suoi cittadini ma propone un presidio provvisorio per comportamenti anomali e apre un mercato per l’eccesso di laureati sottoccupati o francamente disoccupati che la nostra università ha licenziato negli anni a ritmi forsennati. Uno Stato che dice di occuparsi della salute attraverso l’accesso alle cure psicologiche ma, di fatto, ne impoverisce e svaluta il senso e autorizza una liberalizzazione della pratica e della professione.

Qualcuno forse ancora ricorda che un tempo non tanto lontano, invece, una rete di centri di salute mentale diffusa nel paese esisteva e molti psicoterapeuti vi lavoravano tutti i giorni offrendo risposte a domande emergenti o aiutando le persone a comprendere meglio cosa stavano chiedendo e di cosa avevano bisogno. Esisteva anche la psicologia scolastica che consentiva un accesso al mondo complesso dell’infanzia quando la complessità era troppa. C’erano persino i consultori familiari territoriali dove psicologi formati potevano aiutare mamme e padri in difficoltà. E questo perché qualcuno, da legislatore, aveva pensato in termini di comunità, di società e non di mercato. Ma, si sa, il tempo passa.

Un’alternativa, tuttavia, sarebbe possibile. In piena pandemia ci si è resi conto che non sono da moltiplicare le diagnosi psichiatriche ma le occasioni di ascolto, confronto ed elaborazione. A scuola, per esempio, di fronte alle mille confusioni, sarebbe possibile dare parole all’inquietudine e allo smarrimento, anche online se il caso. Certo servirebbe che si sappia abbastanza di bambini, di adolescenti e di dinamiche di gruppo e che si faccia un buon lavoro sia con gli scolari che con i loro insegnanti, gente che sappia di psicologia di comunità e non di catastrofi. E poi ci sono gli anziani e i vecchi in RSA, spaventati e soli: ma anche qui avremmo la possibilità di avvalerci di personale per gestire gli stati di maggior sofferenza, innanzitutto socializzandoli e non trattando solo i singoli individui.

E ci sarebbero tempo e orecchie addestrate per i lutti delle famiglie che hanno perso i loro cari. Anche i cosiddetti operatori, non esenti da prove psicologiche estreme, come i medici e gli infermieri che lavorano e vivono ogni giorno a contatto con la morte da COVID avrebbero bravi psicologi assunti dagli ospedali o dalle RSA che si incarichino di disintossicare il personale dall’esposizione prolungata con la morte, contagiosa quanto un virus ma dagli effetti ancora più insidiosi. Persino sui media qualcuno userebbe le competenze di seri professionisti della psicologia della comunicazione in grado di contenere le più appariscenti derive di una stampa o di una TV sensazionalista.

Per non parlare del patrimonio di servizi pubblici territoriali, che verrebbero finalmente ripopolati con professionisti competenti, supervisionati, che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. Un grande piano non corporativo di psicologia sociale per una società in affanno che farebbe lavorare legioni di giovani psicoterapeuti. C’è qualcuno, infatti, che pensa che una democrazia avanzata non necessita solo di equità e giustizia sociale ma anche di una decente alfabetizzazione dell’anima (si, dell’anima e non del cervello). Ci vorrebbe qualcuno che abbia a cuore la psicologia come disciplina della salute, della riparazione e della relazione, umana e professionale. E politici che ritengano che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli saranno e sono anche migliori cittadini.

Insomma, se il Bonus appena bocciato rischia di tornare prima o poi in qualche altra versione, un’alternativa meno avvilente per la psicologia, la psicoterapia e gli psicologi sarebbe possibile.
Quale scenario preferite? Per quale opzione sareste disposti a battervi?

Lettera aperta al Sindaco di Napoli (Emilio Lupo)

 

Riportiamo di seguito in allegato il testo integrale della lettera aperta che il dott. Emilio Lupo. Resp, Nazionale dell’Organizzazione di Psichiatria Democratica ha inviato al Sindaco di Napoli, Prof. Gaetano Manfredi, nella quale avanza una serie di articolate proposte sul destino dell’area dell’ex manicomio L. Bianchi di Napoli.

Allegato:

La Lettera Aperta al Sindaco di Napoli prof. Gaetano Manfredi

 

Due sciagure non giustificano la morte di un uomo (Antonello d’Elia)

La morte del giovane uomo tunisino Abdel Latif riporta drammaticamente l’attenzione su situazioni di violenza e cause di sofferenza psichica e fisica che sempre più di frequente passano inosservate, dati di fatto su cui pare non valga la pena discutere. La prima riguarda le condizioni con cui uomini e donne, e spesso ragazzi e bambini, affrontano un percorso migratorio rischioso, insidioso pieno di pericoli. Che sia il mare nostrum o i boschi polacchi le migliaia di persone che tentano di varcare la soglia d’Europa incontrano respingimenti, maltrattamenti, violenza inflitta o gratuita che tradisce il rifiuto razzista di riconoscere quali esseri umani coloro le cui esistenze, la cui storia, le cui ragioni sono appiattite nella nuova condizione del migrante. Condizione che, oltre a cancellarli come soggetti di diritto e come appartenenti al consesso sociale, diventa oggetto di accanimento politico, di strumento di lotta fra stati, di aggressione istituzionale e personale. Non è umano viaggiare su imbarcazioni precarie né dormire nei gelidi boschi del nordeuropa, e non è umano, per coloro che a questa prova sopravvivono e riescono in qualche modo a varcare la soglia, essere rinchiusi, concentrati in luoghi di sospensione, di attesa, spazi liminari in cui vengono detenuti senza titolo, ambiguamente trattenuti per un inedito reato, quello di voler vivere, sfuggire alla miseria, alla violenza inflitta da altri esseri umani. Abdul Latif aveva dovuto sopportare un ulteriore tappa del suo percorso sostando per giorni su una nave quarantena, perché la pandemia da COVID19 comporta anche questo, prima di giungere nel CPR di Ponte Galeria. Aveva problemi psichici, si è scritto. Come se, per una sorta di malinteso darwinismo, sopportare promiscuità, maltrattamento, anche il ‘semplice’ abbandono, fosse un requisito necessario per accostarsi al territorio nazionale. Per chi dovesse patire tutto ciò e dar segni di cedimento c’è sempre una diagnosi psichiatrica per confinare una sofferenza umana in una categoria medica che ne distilla il comportamento, ne circoscrive l’indocilità e disattiva la ribellione. Alla violenza del viaggio, a quella della limitazione forzata del CPR si unisce allora quella della psichiatria istituzionale. Si intuisce, leggendo la stampa, che, a morte avvenuta, si tratti ora di rimpallare responsabilità tra chi dice che prima di essere affidato alla psichiatria non era malato, era affabile e sorridente e che solo un ‘inspiegabile’ circostanza avrebbe scatenato un comportamento meritevole di ricovero, e gli ospedali in cui è giunto. I familiari parlano di una telefonata in cui Abdel dice di percosse, ma ci si può fidare delle famiglie? Il consulente intervenuto al CPR avrebbe concluso che in un luogo di vere cure avrebbe potuto essere appropriatamente trattato. Ricovero e diagnosi si fanno in ospedale, come se solo raffinati specialisti possano esercitare la loro scientifica competenza su un giovane uomo sofferente, di sicuro insofferente per vicende che forse qualcuno avrebbe potuto ascoltare prima che ricoverare, rinchiudere, sedare farmacologicamente e legare a un letto. Si sa, la psichiatria è arte medica che si avvale di raffinatezze scientifiche quali le fasce di contenzione con fermi magnetici per mani e piedi da fissare al bordo del letto, e non si può arrestare il corso della medicina. Da un ospedale a un altro per fare diagnosi psichiatrica: che sofisticata procedura! Fatto sta che il giovane è morto, e come giustamente nota con sarcasmo Manconi su la Repubblica, è morto a causa del cuore che si è fermato, come se ci fossero morti con il cuore che batte… Interrogati i medici diranno che non era chiara la diagnosi, che il giovane era violento, aggressivo e per la sua tutela andava messo in sicurezza (è così che si dice, lo sapevate?). Forse diranno che non era prevedibile che i farmaci somministrati possano avere effetti avversi fino all’esito mortale, eppure certe cose ci vengono insegnate, ribadite in ottimi convegni sponsorizzati dalle stesse case farmaceutiche che quei farmaci producono e commercializzano.

Alla prima sciagurata violenza istituzionale di un CPR, snodo di un sistema di accoglienza che non accoglie nessuno, non produce reimpatri, non ascolta nessuno, non tollera comportamenti meno che sottomessi, si è aggiunta quella di un ospedale che non cura e tratta la sofferenza come una trasgressione da punire. E così una giovane vita è finita, in silenzio, in una stanza di un reparto psichiatrico. È bene che il garante si sia interessato di questa vicenda che, purtroppo, ne segue altre, troppe, che vedono protagonisti involontari persone in difficoltà che subiscono inermi i reati contro la persona che un sistema psichiatrico loro infligge e che in queste circostanze muoiono. Ma è bene anche che questa storia non rimanga tra le aule di un tribunale e che si sollevi finalmente il velo su pratiche quotidiane che violano il codice penale, quello deontologico, e la legge morale. E che questo avvenga in nome di una disciplina medica che alla scienza si appella richiede una mobilitazione collettiva di coscienze, persone, associazioni. Psichiatria Democratica, che è sempre stata in prima linea contro la contenzione e la deriva istituzionale della psichiatria, farà come sempre la sua parte.

 

Antonello d’Elia

Presidente di Psichiatria Democratica

La lezione di Riace (Antonello d’Elia)

La vicenda di Mimmo Lucano sta animando in questi giorni dibattiti e cuori. La partecipazione emotiva, ideale e politica al suo operato nei confronti sia dei rifugiati che dei suoi concittadini ci coinvolge almeno quanto ci sdegna l’esito giudiziario del processo intentato a lui e alle altre persone coinvolte nel cosiddetto modello Riace: una pena enorme, sia per i capi d’accusa, sia rispetto ai fini e ai risultati umani delle azioni di cui tutti sono stati accusati. Come non essere d’accordo con il concetto di «inversione morale» espresso da Ezio Mauro anni addietro a proposito dell’attacco alle Ong da parte del governo di allora, quando venne introdotto il reato umanitario, ovvero un crimine da eccesso di umanità commesso per salvare vite senza tenere conto della ragion di Stato. Non per nulla in questi giorni vengono chiamati in causa Antigone e il conflitto tragico tra la pietas e la polis, tra la sepoltura di Polinice e la legge di Creonte. Può un sindaco, un amministratore, forzare le leggi dello stato se inique oppure incoerenti rispetto a quelle della convivenza umana, che ricavano la loro forza dal rispetto per l’altro, dalla protezione nei confronti dei fragili, dei miseri, dei perseguitati, degli abbandonati? Tutti principi morali che non sono scritti come tali nei codici ma che ne innervano lo spirito, almeno nella tradizione giuridica e filosofica che abbiamo ereditato ma che sembra andarci sempre più stretta. Morale, appunto, si chiamerebbe questa ostica materia.

Si può obiettare che una cosa sono le intenzioni e i risultati e altro i mezzi adottati per conseguirli. Che la ragione amministrativa e gestionale ha una sua razionalità garantita da norme e leggi che non può essere piegata rispetto ad uno stato d’eccezione deciso da un singolo attore sociale e non dallo stato, unico potere sovrano a cui è dato decretare la sospensione dell’ordinario e l’introduzione dell’eccezionale. Gli argomenti non mancano per sanzionare chi quelle leggi avrebbe violato. Nel caso del sindaco Lucano (si badi, non di Mimmo Lucano) tuttavia si è andati oltre perché le motivazioni che hanno dato luogo alla sentenza non rimandano a reati amministrativi ma a una associazione a delinquere finalizzata alla distrazione di fondi e al loro utilizzo per fini altri rispetto a quelli per cui erano stanziati. Tutto questo in terra di Calabria in cui l’ingiuria quotidiana della criminalità organizzata ha soppiantato la presenza dello stato, ha deformato la convivenza civile, ha danneggiato fino all’inverosimile una popolazione sottomessa, paralizzata, ricattata e, a volte, complice anche attraverso le classi dirigenti che ha prodotto nei decenni. Come a dire che non vi è alcuna differenza tra un viadotto costato troppi milioni di euro, una Azienda Sanitaria Locale incapace di produrre salute ma efficacissima nel garantire potere e distribuire denaro pubblico a pochi soggetti e un sistema di accoglienza dei migranti (inviati peraltro dal sistema centrale CAS e Sprar/Siproimi) che ha permesso a centinaia di esseri umani di sottrarsi all’abbandono, allo sfruttamento criminale, alla fame, alla esclusione radicale da qualsiasi rete sociale ed umana sana. A poco vale che dai reati sia stato espunto quello del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, quella trappola giuridica, partorita da un governo che aveva fatto della paura un instrumentum regni, e che incatena migliaia di esseri umani arrivati nel nostro paese a un destino di (finte) espulsioni e alla certezza di un limbo sociale e umano trasformato in reato la cui unica pena è quella di non lavorare, non abitare, non vivere. Nei fatti è la dimensione territoriale di inclusione che è stata messa all’indice, e con esso quanto il sistema Riace ha assicurato alla maggior parte di coloro che vi venivano inseriti su preciso mandato di un apparato dello stato.

Alcuni reati sono stati commessi, in diversi casi la legge è stata forzata: di questo il sindaco ha non solo ammesso l’esistenza ma ha ‘osato’ rivendicare la consapevolezza di aver agito in nome di una disubbidienza civile, attività consentita a pochi sparuti personaggi nella storia italiana a cavallo tra i due secoli, che hanno meritato fama d’eroi civili (qualcuno, forse ha ancora memoria di Danilo Dolci e di don Milani…) e non altro, avvalorando nella loro eccezione una drammatica propensione al conformismo di gran parte del paese. Ma è permesso a un sindaco, a un rappresentante eletto del potere, disubbidire? È questo probabilmente il vero reato di cui è accusato Lucano, capo della cupola dell’inclusione civile e sociale di Riace. Aver eretto a sistema, ed averlo sfacciatamente pubblicizzato, un modo di dare senso ad esistenze schiacciate da un ingiusto e disumano apparato che di accogliente non ha nulla, ubbidendo peraltro  a direttive e favori chiestigli dagli organi statali centrali (“Chiedete a Lucano, lui prende tutti” pare che sollecitassero da Roma quando nella Lombardia, ricca di denaro e di intolleranza, le porte erano chiuse) e facendo ‘pagare’ questa disponibilità con una risposta organizzata, efficace nel far sentire di nuovo esseri umani corpi altrimenti sballottati dalla storia e sottoposti alla violenza sistematica di altri umani, anche se ottenuta non rispettando le regole e le procedure. Un modello, tuttavia, che per i suoi risultati è stato apprezzato fuori dai nostri confini (“nemo profeta…”) ed in grado persino di far lavorare e guadagnare italiani condannati anch’essi da tempo alla marginalità, destino della parte più derelitta del nostro Sud. Non un’isola felice e probabilmente neppure esente da qualche abuso, magari figlio non tanto del familismo quanto della disabitudine, storicamente determinata, a lavorare e produrre in modo chiaro, lecito, legale. Ma pur sempre un’isola in un continente di egoismi ed abbandoni.

L’approccio all’accoglienza di Riace, peraltro, non è tanto diverso da quanto tutti i giorni avviene, nel silenzio assenso delle istituzioni: lo storno degli assegni giornalieri di cui solo una parte viene elargita agli ‘ospiti’ migranti dei CAS, non è esclusiva invenzione del sindaco del paesino calabrese, ma sicura fonte di introito per fior di organismi accreditati che gestiscono grandi contenitori per anime morte in cui, con coloniale paternalismo, si tengono vincolati uomini e donne in attesa che spariscano alla vista, magari partendo per altri paesi dove cercare vere opportunità di vita. Fatti noti, e non valga la replica tartufesca che finché non c’è avviso di reato non c’è indagine e non c’è reato! Oppure, visto che si parla di appalti e di cooperative sociali finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, in quanti conoscono le distorsioni dei meccanismi degli appalti che non garantiscono alle stesse, nelle realtà territoriali in cui operano, di vedere legittimato il loro valore sociale ed inclusivo e si vedono invece assimilate a grandi cartelli industriali nazionali in nome della trasparenza del mercato? Che Davide vinca su Golia in queste condizioni è di fatto impossibile. In quanti credono davvero che il libero mercato sia la cura per il defunto Welfare? In troppi se ne mostrano convinti: anzi, nella retorica onnipresente ed asfissiante della ‘virtuosa’ compresenza di pubblico e privato, la maggior parte dei decisori politici e dei controllori amministrativi operano sostenuti da questa non disinteressata certezza.

In altre parole, il sistema Riace ha messo a nudo gli snodi drammatici di un più ampio sistema di governo e di attribuzione di denaro pubblico e lavoro che prospera nella comune, diffusa, cecità.

Un’ultima notazione riguarda un antico dilemma: se modificare lo stato delle cose insoddisfacente dal suo interno o dall’esterno. L’esperienza della psichiatria italiana ha mostrato come un sistema violento, concentrazionario e impermeabile a qualsivoglia intento curativo è cambiato con una legge grazie a una minoranza, che si è avvalsa tuttavia di un ampio consenso civile, culturale, sociale per sovvertire una situazione che non era solo incivile ma iniqua e indifferente ai diritti umani e civili. Era il 1978 e a promuovere quella riforma fu un movimento che si riconobbe nell’essere antiistituzionale e non antipsichiatrico. Fu un modo di abbinare disubbidienza e coerenza e dare legittimità a quanto eccedeva gli interessi e le prassi di una disciplina medica avvilita e culturalmente inconsistente. Non fu opera di un solo uomo quella legge ma di un movimento di persone, uomini e donne, che aumentò nel tempo la sua capacità di convincimento ed ottenne un appoggio ideale, pratico, politico, sociale. Una lezione che la storia degli ultimi decenni ci ha trasmesso. Non lasciamo allora solo il sindaco Mimmo Lucano, contribuiamo a mettere i riflettori sulle drammatiche contraddizioni del sistema dell’accoglienza, sull’esigenza di assicurare dignità e diritti di soggetti a coloro che arrivano nel nostro paese sospinti e spesso vomitati dalla storia. E facciamolo con la pazienza e la certezza che agire bene e per il bene non subirà la stessa sorte per ora riservata a chi ha disubbidito ad alcune leggi dello stato per contemperarle con quelle degli dei.

A Telese Terme grande partecipazione di pubblico alla presentazione del volume di Antonella Leone “L’altalena”

Presentare il lavoro di scrittura “L’Altalena”, della Dott.ssa Antonella Leone, socia della comune Coop. Centottanta, è stata esperienza feconda e collettivamente coinvolgente. La serata è stata organizzata in Telese Terme il giorno 3 settembre u.s. dalla casa Editrice 2000diciasette che ha coinvolto più relatori che, a vario titolo, appartengono alle associazioni del territorio della Valle Telesina o come testimoni diretti della difficoltà di vivere per persone svantaggiate. Psichiatria Democratica è stata presente con il Dott. Salvatore Di Fede, Segretario Nazionale, e chi scrive, affermando che il lavoro diaristico pubblicato dalla Leone, che narra del suo percorso di cura attraverso le opportunità della Salute Mentale di comunità, è stato possibile grazie alla legge 180 e ai suoi Servizi di Salute Mentale, alla praticabilità di un protagonismo diretto, alla rete sociale che si è attivata intorno e per lei. E non ultimo grazie alla cooperazione sociale e alla sua straordinaria funzione di integrazione sociale e lavorativa.

Dott.ssa Carmen Pellecchia

 

Una serata che ha posto al centro dell’attenzione dei numerosi convenuti il tema dei diritti sociali e di cittadinanza da esigere allargando il fronte delle alleanze in un momento di grave attacco alla legge 180.

In calce riportiamo copia della mia prefazione al libro.

Nel tempo della solitudine pandemica, con ritmo delicato e in grado di giungere al cuore, l’esordio dell’Altalena rompe gli schemi attraverso una inquieta introspezione che porterà l’autrice a rivalorizzare il tempo del “Noi” attraverso il riconoscimento dell’Altro. “Ce la faccio da sola il più delirio”.

Un diario L’Altalena che affronta emozioni, stati d’animo e riflessioni sulla propria condizione. Dalla narrazione adolescenziale a quella adulta attraversando l’angoscia, lo smarrimento, la paura e il dolore per l’accettazione della malattia.

Depressione Bipolare è la diagnosi, malattia dell’anima e disagio esistenziale, attraversata con gli occhi di una giovanissima donna che fa i conti con la prima diagnosi, i medici, lo studio, la riabilitazione, il mondo del lavoro e l’accettazione ma non prima di aver danzato dolorosamente nel buio.

Il cammino in bilico di una danzatrice che d’improvviso si riscopre funambola, costantemente alla ricerca di un equilibrio.

Guerra, Via Crucis, Calvario le immagini utilizzate per raccontare la fase depressiva. Potenza, speranza, forza e invincibilità le parole usate per descrivere la fase caratterizzata dall’euforia. Scrittura intensa e profonda valorizzata dalla poesia che fa da sottofondo a tutto il cammino. Passi ben calcati che lasciano orme che aprono e hanno aperto nuovi sentieri.

Passi, lungo questo cammino, che si incrociano con tanti altri, la famiglia, gli amici, il Distretto di Salute Mentale di Puglianello, la Comunità Terapeutica L’Aquilone di Solopaca, la Cooperativa Centottanta.

Depressione-Euforia, Depressione-Euforia e ancora Depressione-Euforia è questo il ritmo dell’Altalena, generoso dono che l’autrice fa non soltanto a sè stessa per ordinare e dare senso alla sua personale comprensione del mondo e della malattia, ma che vuole condividere con chi tra queste righe potrà riconoscere un po’ della sua storia e sentire che nell’incessante ricerca delle soluzioni in solitudine vi è il delirio, nella costruzione di barche e di porti insieme si può perseguire la felicità.

Salute delle persone che usano droghe e salute mentale (lettera aperta)

Al Ministro della Salute
Alla Presidenza conferenza stato-regioni
All’AGENAS

 

 

Oggetto: salute delle persone che usano droghe e salute mentale

 

Apprendiamo con sorpresa e preoccupazione, da una bozza di un documento dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) l’ipotesi di inserire, le dipendenze e in generale le competenze dei servizi rivolti alle persone che usano droghe, all’interno della Salute Mentale.

Consideriamo questa proposta completamente anacronistica e pericolosa e, tra l’altro, inopportunamente lanciata proprio quando si sta organizzando la Conferenza Nazionale sulle Droghe, indetta dopo dodici anni, che dovrà riflettere anche sul sistema dei servizi.

Risale alle leggi Sanitarie del 1933 l’assimilazione tra malattia mentale e “intossicazione da sostanze stupefacenti” che aveva come riferimento la legge manicomiale del 1904 sulla base dell’idea che all’epoca si aveva del fenomeno, non ancora particolarmente diffuso tra la popolazione.

Ma fin dal 1975 quando il fenomeno si stava diffondendo e delineando nella sua specificità, la legge n. 685, prima normativa organica sulle droghe, identificava un’area autonoma di intervento dei servizi nell’ambito di una politica complessiva di intervento sulle diverse e specifiche componenti del fenomeno. Così successivamente con il DPR n. 309/90 si manteneva lo stesso orientamento articolando più precisamente la configurazione dei servizi e le relazioni con gli enti del Terzo Settore e, infine, l’Atto di Indirizzo della Conferenza Stato Regioni del 21/1/99, identificava il Dipartimento come modello organizzativo più adeguato delegando alle Regioni la scelta del suo livello di articolazione.

Il vero nodo delle leggi più recenti sulle droghe era ed è la progressiva pervasività del sistema penale che, paradossalmente rende l’area degli interventi e dei servizi rivolti alle persone che usano droghe ancora più specifica in quanto questa si confronta con incarcerazioni di massa e gli stigmi associati e con i processi di patologizzazione e di istituzionalizzazione di un fenomeno che ha radici sociali e culturali. E non vorremmo che si aggiungesse a questi processi anche, dopo quasi un secolo, il ritorno della psichiatrizzazione diffusa delle persone che usano droghe.

Dagli anni ’80, da quando è stato creato un sistema di servizi per le dipendenze sull’intero territorio nazionale, il fenomeno delle droghe ha attraversato cambiamenti sostanziali: si è fortemente articolato e reso complesso, moltiplicando i modelli di uso e di consumo in una pluralità di contesti, dalla marginalità al divertimento e alle aree socialmente integrate di tutte le età e generi. I contesti, il setting, si affermano come centrali per comprendere la natura del fenomeno e le prospettive politiche e degli interventi.

Una tale complessità e specificità richiede, un ambito di politiche e di interventi specifico e articolato che non può essere confinato, come vorrebbe l’Agenas, nel modello del disagio e in generale nella salute mentale che ha un’area altrettanto complessa ma con caratteristiche chiaramente diverse.

La riduzione delle politiche sulle droghe a questione psichiatrica o anche di salute mentale, per questi motivi, determinerebbe un significativo ridimensionamento e compressione degli interventi e delle attività di servizio realizzati nelle carceri e verso i cittadini liberi. In particolare, darebbe uno stop al lavoro della miriade dei servizi innovativi impegnati a riadeguare il sistema alle nuove domande posta dai cambiamenti. Ci riferiamo alle esperienze ampie e diversificate Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi (RdD/LdR) oggi inserite nei LEA, molto frequentemente realizzate in integrazione con il Terzo Settore, fino alle pratiche di servizio volte al superamento del modello patologico e cronicizzante all’interno di molti Serd e, ancora, alle numerose esperienze di prossimità realizzate nell’area delle Comunità di Accoglienza. Si prefigurerebbe, cioè, l’interruzione o comunque il ridimensionamento di tutti quei processi che nel corso degli anni sono stati promossi per depenalizzare, decriminalizzare e depatologizzare le persone che usano droghe e per adeguare il sistema degli interventi all’altezza dei tempi.

Del resto, le esperienze di unificazione dei due servizi sperimentate in diverse regioni italiane hanno evidenziato che si è trattato di una operazione di management finalizzata al contenimento della spesa. Non c’è alcuna evidenza pratica che l’accorpamento abbia significato un miglioramento dei percorsi assistenziali per le persone in carico ai due servizi. Difatti si è dimostrato un processo che ha messo, fittiziamente, due servizi, storicamente differenti, nello stesso contenitore creando non già un’integrazione ma solo due percorsi paralleli.

Ma, ancora più pesante è la scelta di voler omogeneizzare sul territorio nazionale esperienze diverse in assenza di un dibattito, approfondito e trasparente, tra tutti gli operatori dei due settori.

Inoltre, se questa ipotesi inadeguata e pericolosa, dovesse essere accolta dal Ministero della Sanità e dalle Regioni, ci troveremmo di fronte a un considerevole passo indietro verso quella psichiatrizzazione dei fenomeni sociali, che proprio la salute mentale italiana nata dalla deistituzionalizzazione dei manicomi, si è impegnata storicamente a combattere. In conclusione, una riduzione dei diritti delle persone che usano droghe e vivono altre dipendenze.

Pensiamo che tra la Salute Mentale e la Salute delle Persone che usano Droghe o con una dipendenza comportamentale, sia necessario una collaborazione sulle problematiche di confine dei due sistemi di servizi, ma mantenendo la piena autonomia sulle realtà più specifiche di azione e di intervento di ognuna che corrispondono ad aree diverse di bisogno dei cittadini.

Nelle regioni nelle quali tale modello di inglobamento nella salute mentale è stato sperimentato, non è un caso, si sono create frequentemente conflittualità tra i due sistemi, il ridimensionamento dei servizi e la limitazione delle risorse destinate agli interventi rivolti alle persone che usano droghe e che vivono altre dipendenze.

L’esigenza di un Dipartimento autonomo sul piano gestionale e organizzativo, che si occupi in modo ampio della Salute delle Persone che usano Droghe e con altre Dipendenze, non è legata a logiche corporative o di potere ma all’esigenza di offrire prestazioni adeguate ad una fascia di bisogno ben definita della popolazione. Il modello di un Dipartimento autonomo, inteso come un sistema flessibile e aperto permette di introdurre le innovazioni e i cambiamenti necessari nel modello organizzativo e culturale attuale ancora legato agli anni ’80 per promuovere un sistema di interventi e azioni differenziate e plurali in grado di rispondere ai diversi modelli di uso e di consumo in continua evoluzione, ampliando l’integrazione e la coprogettazione tra Pubblico e Terzo settore.

Sulla base di queste considerazioni chiediamo, in primo luogo al Ministro della Sanità e alla Conferenza Stato-Regioni che la cabina di regia per il patto della Salute non prenda in considerazione questa ipotesi. Nello stesso tempo chiediamo di riscrivere in modo organico la sezione riferita al Sistema dei Servizi rivolti alle Persone che usano Droghe e con altre Dipendenze con un nuovo testo discusso con le organizzazioni degli operatori e della società civile, nel quadro più generale della riforma delle leggi sulle droghe, inserendo nel Patto sulla Salute, uno specifico capitolo per l’area della Salute delle Persone che usano Droghe e con altre Dipendenze, analogamente a quanto previsto per la Salute Mentale.

 

Denise Amerini CGIL

Stefano Vecchio Presidente Forum Droghe

Antonello D’Elia Presidente Società Italiana di Psichiatria Democratica

Vito D’Anza Portavoce Forum nazionale della Salute Mentale

 

Roma, 10 agosto 2021

Gli equivoci del TSO (Antonello d’Elia su quotidianosanita.it)

su quotidianosanita.it

Gli equivoci del TSO nella cronaca di questi ultimi giorni

di Antonello d’Elia

Piccole distrazioni con grandi conseguenze (Antonello d’Elia)

C’era una volta una legge dello stato che, nel 1978, sancì che chi nella vita patisce problemi comportamentali che rispecchiano una sofferenza mentale va trattato come una persona affetta da un male che va curato e non isolato dal resto del mondo in spazi chiusi che erano chiamati manicomi. Era scritto in quella legge che con l’ordine pubblico, il sistema di polizia e quello giudiziario quella persona ammalata da curare non aveva a che fare: a interessarsene sarebbe stata la sanità pubblica perché nessuno può essere accusato di essere malato.

C’era una volta, anzi proprio oggi, un deputato del Partito Democratico, il solerte commercialista toscano Umberto Buratti, che propone e vede approvato un emendamento al cosiddetto Recovery Fund, per cui chi dovesse essere sottoposto nella vita a un ricovero obbligatorio in ospedale in un reparto di psichiatria, debba essere segnalato al prefetto e agli uffici e comandi di polizia. Con questa geniale trovata si eviterebbe che persone che hanno o hanno avuto degli scompensi psichiatrici possano acquistare e detenere armi e conseguire la relativa autorizzazione a farlo. Finalmente nessun matto certificato potrà sparare all’impazzata per le strade del nostro bel paese!

Peccato che il suddetto solerte emendante non sia stato informato che un provvedimento di questo genere che restituisce il potere di controllo di polizia nei confronti di un malato sia in contrasto con quella legge dello stato tanti anni prima approvata. E che nessuno gli abbia suggerito che per ottenere l’esecrato porto d’armi sia già necessario esibire una certificazione che i tanto vituperati Centri di Salute Mentale sono tenuti a produrre visitando chi lo richiede, insieme ad occuparsi di cosucce da poco come prendere in carico persone seriamente sofferenti e a sostenerne le famiglie. Peccato ancora che i commercialisti non sappiano che la sofferenza mentale non solo fatichi ad entrare nei panni stretti di una diagnosi ma che un atto sanitario quale il TSO non sia un’etichetta e le cose, tra gli umani, siano un poco più complicate. Ad esempio che ci sono persone che stanno male, anche molto male, ma non vengono mai ricoverate perché non solo non prendono affatto in considerazione di rivolgersi a qualcuno che avrebbe titolo per curarlo, ma vivono la loro vita in spensierata sofferenza, ad esempio perseguitando mogli ed ex senza batter ciglio. A volte qualcuno arriva anche ad uccidere, magari con una pistola che il nostro deputato non ha fatto in tempo a togliergli perché, ahimé non era mai stato in TSO e forse neppure dal dottore di famiglia per un’affezione intestinale.

L’equazione matto e TSO, si dovrebbe sapere, non regge di fronte alla clinica, all’esperienza, alla realtà. Per questa strada si torna alla legge del 1904 che conferiva uno statuto speciale alle persone che, in modo acuto o stabilizzato nel tempo, avevano problemi di ordine psicologico o psichiatrico: quello di potenzialmente pericolosi e in quanto tali da tenere sotto controllo dalle forze di polizia e comunque a queste segnalate. Certo l’emendamento oggi approvato avrà bisogno di un decreto attuativo e siamo certi che qualcuno, con la dovuta grazia, spiegherà che esiste una Costituzione, che le Leggi dello Stato non possono essere contraddette dal primo emendamento che passa e che, insomma, non se ne fa niente. Intanto, però, il clima di allarme nei confronti delle persone con sofferenza mentale sarà aumentato e con esso la sempre più diffusa disinformazione e con essa i pregiudizi a cui non sfuggono, evidentemente, anche i deputati del Partito Democratico. Grande diffusione mediatica anche per l’immagine pubblica dei matti pericolosi da cui difendersi. La smania di controllo burocratizzato di uno stato che indaga e sorveglia anziché tutelare avrà battuto un altro punto a favore. Forse anche il nostro Buratti avrà avuto il suo momento di gloria e si accontenterà. Non ci accontentiamo noi, invece: troppi sono i segnali di una deriva controriformista in psichiatria e in salute mentale pronta a calpestare diritti e a danneggiare persone che hanno bisogno di ascolto e cure che vengono loro negate. E neppure possiamo tacere di come un sistema sanitario pubblico abbandoni cittadini ed operatori al loro destino immiserendo di persone e di mezzi i servizi che proprio a questo sarebbero dedicati. Che poi nei provvedimenti di Recovery entri un codicillo specioso e non un rilancio massiccio del sistema salute mentale nazionale ci rende veramente sgomenti. Risulta quanto mai necessario che l’aggettivo Democratico venga abbinato alla Psichiatria perché molto di quanto sta succedendo democratico non è.

Testo della mozione finale del XXIII Congresso nazionale di Magistratura Democratica

Il XXIII Congresso nazionale di Magistratura democratica, nell’approvare e fare integralmente propri i contenuti della Relazione della Segretaria generale Mariarosaria Guglielmi, riafferma che la legittimazione democratica della magistratura si fonda sul ruolo della giurisdizione nella tutela dei diritti e delle libertà, come limite ad ogni potere e difesa contro ogni arbitrio.

La pandemia ci ha consegnato un’enorme crescita delle disuguaglianze unita all’accentuazione dirompente dei guasti di un paradigma di sviluppo, fondato sul primato del mercato senza regole e sull’arretramento dello stato sociale, a scapito della dignità e dei diritti delle persone.

Le cronache restituiscono la costante messa in discussione dei diritti sociali e civili dei poveri, dei migranti, delle persone svantaggiate.

In questo contesto emerge, con accresciuta drammaticità, che le conquiste della democrazia non sono irreversibili e hanno bisogno di un presidio permanente. Anche le vicende del carcere di Santa Maria Capua Vetere rivelano la fragilità della democrazia e dello stato di diritto, e rendono chiaro che tali conquiste non possono mai dirsi acquisite una volta per tutte.

L’indipendenza della magistratura è, allora, condizione indispensabile per garantire un’effettiva tutela dei diritti e delle libertà.

Affrontare la questione morale è, per la magistratura, un impegno imprescindibile, così come ribadire la necessità di rispettare il codice deontologico; non si tratta di una formalità burocratica, ma di una concreta espressione e fondamento del rinnovato “patto con i cittadini”, che possa restituire credibilità al lavoro quotidiano dei magistrati nell’esercizio imparziale e indipendente della giurisdizione.

Questo esercizio quotidiano della funzione giudiziaria deve essere espressione di un potere orizzontale e diffuso, a servizio del cittadino e in special modo della parte più debole e marginalizzata della società.

Per l’autonomia di Magistratura democratica e l’unità della magistratura progressista

In questo contesto, la recuperata, piena autonomia di Magistratura democratica non nasce in contrapposizione ad AreaDG, ma nella ricerca di un completamento nelle forme di rappresentanza delle sensibilità che percorrono la magistratura progressista.

Magistratura democratica è orgogliosa di avere contributo alla nascita ed alla crescita di AreaDG e guarda con favore all’impegno di molti suoi iscritti che vi operano e continueranno ad operarvi alacremente.

Siamo, quindi, convinti che l’iscrizione ad entrambi i gruppi sia una ricchezza. Consapevoli dell’esistenza di un comune sentire su molti temi, ma altrettanto consapevoli dell’esistenza di alcune diversità di approccio, sensibilità e prospettive culturali su altri; crediamo che questa differenza possa essere un valore e che, pertanto, la azione dei due gruppi possa e debba essere complementare.

A fronte di derive burocratiche e corporative, l’unità della magistratura progressista rimane un obiettivo politico che Magistratura democratica si impegna a perseguire. E ci proponiamo, sin da subito, di ricercarla in occasione dei prossimi confronti sui temi posti dalle proposte referendarie e dalle riforme in cantiere.

Salute mentale e Psichiatria al tempo del Covid 19

Nei giorni 17 e 18 giugno, organizzato dal Gruppo Formazione di Psichiatria Democratica, si è svolto, in modalità Fad-sincrona, il Corso di aggiornamento Ecm ‘Vicini e lontani – Salute mentale e psichiatria al tempo del Covid 19’.

Il Corso, che ha visto la partecipazione di numerosissimi operatori di tutta Italia – a riprova di un convinto apprezzamento in relazione ai temi trattati, alle metodologie didattiche proposte ed al valore dei docenti – si è svolto integralmente in modalità “on line” e, per tale motivo, ha rappresentato una sostanziale novità per buona parte dei discenti come degli stessi docenti.

A tal proposito, ed al fine di ridurre i possibili inconvenienti connessi a tale evenienza, la Segreteria organizzativa, in stretta collaborazione con il Provider ha sostenuto una capillare ed individualizzata attività di supporto ai singoli docenti al fine di superare le eventuali difficoltà e consentire loro di avvalersi delle innumerevoli potenzialità che la dimensione digitale consente di usare nella moderna comunicazione. Di tali potenzialità il Corso si è sicuramente avvantaggiato avendo potuto offrire i propri contenuti in un’articolata proposta multimediale e multimodale (grafiche, video, audio, ecc…) che hanno indubbiamente agevolato la comprensione e alimentato l’attenzione dei partecipanti (oltre un centinaio attivamente presenti per l’intera durata delle giornate).

Il Corso, articolato come gli altri eventi formativi di PD, attraverso relazioni, tavole rotonde e dibattiti, ha posto al centro della proposta formativa la questione della presa in carico della grave sofferenza mentale, in un periodo particolarmente problematico a causa delle sconvolgenti conseguenze sanitarie e sociali dovute alla pandemia da Covid 19. Infatti, in un contesto globale caratterizzato dall’ impoverimento sociale e dalla riduzione delle occasioni di relazione, i rischi per le persone con disagio mentale sono aumentati considerevolmente, anche perché, proprio in tali scenari, hanno trovato rinnovato alimento le costanti tentazioni della psichiatria tradizionale nel riproporre isolamento, segregazione e rinvigoriti percorsi di vetero e neo-istituzionalizzazione.

Dall’insieme delle relazioni e dai tanti interventi è, tuttavia, emersa l’evidenza che nonostante le gravi difficoltà connesse al periodo, i Servizi di salute mentale di prossimità e, tra questi, in particolare i Centri diurni in una condivisa operatività con la Cooperazione sociale, hanno in questi mesi, mantenuto le loro attività ed in molti casi ne hanno creativamente prodotte di nuove: esperienze concrete, fatte di proposte, partecipazione ed interazione con le Comunità locali. L’insieme di queste esperienze, così come sottolineato da molti interventi, ha riproposto con particolare forza il valore insostituibile dei percorsi socio-sanitari e lavorativi partecipati e condivisi. Unanimemente è stato affermato che tali percorsi devono avere maggiore considerazione nelle scelte di programmazione locale, nella definizione delle risorse necessarie, nelle priorità di intervento dei Servizi e, non ultima, nella formazione professionale degli operatori dei Servizi stessi. Tali percorsi, si è detto, costituiscono la prospettiva futura dei Servizi e devono costituire l’asse portante di una rinnovata e progressiva proposta integrata – sociale, sanitaria, istituzionale – che può dar vita ad un nuovo Progetto Obiettivo Nazionale a sostegno dell’azione dei Servizi stessi nel loro rapporto con le Comunità locali.

Il Corso nella sua ricchezza di contenuti ha posto la propria attenzione su numerose e significative questioni. Tra queste il delicato rapporto tra cura-assistenza ed ordine giudiziario. Un rapporto da sempre complesso che si è ridefinito negli anni nei provvedimenti finalizzati alla chiusura degli OPG, nel passaggio di significative responsabilità e funzioni dal Ministero di Grazia e Giustizia al Sistema Sanitario nazionale, nell’istituzione delle Rems e, nel corso degli ultimi tempi, nello scenario delineato dai Protocolli operativi. Questi ultimi, nell’alimentare percorsi condivisi, partecipati e responsabili tra gli operatori della giustizia e quelli dei Dipartimenti di salute mentale appaiono lo strumento più adatto per ridefinire in modo equilibrato e funzionale il rapporto tra le due Amministrazioni. Per sostenere un tale percorso e garantirne omogeneità ed uniformità su tutto il territorio nazionale si è sostenuta la necessità di un Regolamento attuativo nazionale.

Particolarmente critica la riflessione su una delle cattive pratiche che qualificano la psichiatria come “scienza della distanza”: quella della contenzione. E’ stata sottolineata la sua diffusione generalizzata e tutti gli intervenuti hanno definito la pratica illegittima e lesiva dei diritti e della salute delle persone e che, per tali motivi, deve essere definitivamente superata.

E’ stata inoltre posta attenzione alla presa in carico della sofferenza propria dell’età evolutiva e dell’adolescenza. Le relazioni e le riflessioni sulle esperienze nazionali ed internazionali proposte nello svolgimento del Corso hanno manifestato l’importanza di una presa in carico precoce comunitaria ed integrata da parte dei Servizi a queste fasce di età dedicati e alla necessità che tali Servizi siano parte integrante dei Dipartimenti di salute mentale al fine di garantire continuità all’azione terapeutico-riabilitativa.

Da ricordare, infine, che su proposta di Psichiatria Democratica tutti i presenti hanno voluto dedicare questo Corso al compagno Peppe Ortano psichiatra e Dirigente nazionale dell’Associazione, impegnato da anni in favore della Riforma e per la promozione e la tutela dei diritti dei pazienti psichiatrici.