La scomparsa di Paolo Nascimbeni

Il 16 aprile scorso ci ha lasciato Paolo Nascimbeni, psicologo, conosciuto per la sua cultura e la lunga partecipazione, anche in posizioni di responsabilità – Responsabile dell’U.F. Salute Mentale Infanzia e Adolescenza,  Direttore per lunghi anni dell’U.O. di Psicologia, Direttore del DSM di Arezzo, Referente per la Regione Toscana alla formazione – all’esperienza, sotto la direzione di Agostino Pirella, della chiusura del manicomio di Arezzo a partire dall’inizio degli anni’70 e al lavoro nei servizi territoriali.

Risulta una fonte preziosa oggi per ricordarlo il suo intervento al Convegno su Agostino Pirella nel giugno 2018[1] in cui Paolo ha tracciato una sintesi della sua esperienza aretina;  per ri-conoscerlo o presentarlo a chi non l’ha conosciuto credo che non ci sia niente di meglio che affidarsi alle sue parole.

Paolo è stato una delle prime persone a venire a lavorare ad Arezzo sulla motivazione della sua formazione di Psicologo Sociale che idealmente trovava nell’esperienza di Arezzo, che cominciava  ad essere conosciuta a livello nazionale,  una pratica psichiatrica di “negazione del mandato sociale. Negare il mandato sociale della psichiatria ed il mandato sociale di coloro che cominciavano ad occuparsi di Salute Mentale era una cosa basilare per potere riuscire a vedere delle persone non come malati ma come individui: è stata questa una prima mossa culturale che ha spinto me e tante altre persone nell’impegno professionale e politico che, allora, coincidevano” .

Inizia così il lungo rapporto di Paolo con Arezzo e con Agostino Pirella che riconosce, pur nelle non trascurabili differenze caratteriali, come punto di riferimento e maestro cui lo lega l’ “attenzione agli ultimi, partire dagli ultimi, era qualcosa che non era letteratura ma era la pratica che facevamo quotidianamente… (e) questa matrice ce la siamo portata dietro…”.

Questo è stato per Paolo, come per molti di noi, l’insegnamento comune del lavoro ad Arezzo e questo è quello che ci ha consentito di rimanere “compagni di strada” anche quando abbiamo intrapreso esperienze culturali e formative diverse: per Paolo la Terapia della famiglia cui si era formato negli anno ’80.

Paolo con molta lucidità e onestà intellettuale riconosce in questa che chiama “impronta/matrice” la chiave per affrontare il tema/problema delle tecniche “non chiudendosi dentro le tecnologie” ma avendo gli strumenti, scientifici, culturali e pratici per confrontarsi – come avvenuto in corsi di aggiornamento per gli operatori del DSM cui partecipavano come “docenti… il fior fiore delle tecniche” – con dei “professionisti portatori di tecnologie e tecniche ‘forti’… venuti a confrontarsi con tutti gli operatori della Toscana forse per la prima volta in maniera non autoreferenziale… (questo è stato possibile farlo) proprio perché avevamo quella cultura di base da cui eravamo partiti… potevamo imparare tutte le tecniche del mondo ma se non avessimo avuto quella base scientifica e pratica della lotta all’esclusione, di considerazione dell’individuo… non avremmo potuto arricchire i Servizi e, in un certo senso, i nostri ‘docenti’ ma avremmo alimentato, come si diceva negli anni ’70, ‘il supermercato delle tecniche’…”.

Ti accompagni il nostro meritato ricordo, ti sia lieve la terra e “comunque in nostro impegno professionale e civile continua”

 

Cesare Bondioli

 

[1] Per chi fosse interessato gli atti del convegno possono essere richiesti gratuitamente a Centro “F.Basaglia” c/o Provincia di Arezzo – Piazza della Libertà 3 – 52100 Arezzo

Ampia partecipazione e dibattito serrato a Maschito (Potenza) all’incontro organizzato dalla locale sezione di Psichiatria Democratica (PD)

Così come annunciata si è svolta, giovedì 21 aprile a Maschito, in Lucania,  l’assemblea promossa ed organizzata dal locale gruppo di operatori aderenti a Psichiatria Democratica.

Dopo gli interventi dei Dirigenti di PD, Teresa Alamprese, Emilio Lupo e Salvatore di Fede, si è svolto un appassionato confronto tra tutti i partecipanti, sullo stato dell’arte della Salute Mentale sul territorio, sulle criticità e sugli avanzamenti nella affermazione dei principi della riforma psichiatrica.

Lo scambio di idee ed esperienze ha, altresì, fatto emergere la necessità che in tempi brevi vengano avviate sul territorio nuove esperienze di cohousing, al fine di contrastare, nei fatti, ogni tentativo di neo – istituzionalizzazione nella organizzazione dei Servizi.

Con questo impegno collettivo, tutti i partecipanti si sono dati appuntamento in autunno per fare il nuovamente il punto, come gruppo allargato, sul percorso che verrà localmente intrapreso.

24 aprile 2022

La comunità “Aquilone” di Solopaca(Bn) scrive una lettera per la pace al Presidente Mattarella

Lettera per la pace.

 

Caro Presidente della Repubblica Italiana Sig. Sergio Mattarella,

Le scriviamo dalla Comunità terapeutica “Aquilone” di Solopaca, in provincia di Benevento, perché preoccupati della guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina.

Caro Presidente, noi abbiamo provato sulla nostra pelle, anzi nelle nostre vite stesse, quanto sia terribile una esistenza precaria talvolta anche povera e senza l’aiuto di nessuno.

Nel nostro stare insieme, in Comunità, abbiamo invece trovato armonia, sostegno reciproco, pace interiore ed abbiamo fatto di tutto ciò il mezzo più utile per costruire l’opportunità di un futuro migliore, per noi stessi e di riflesso per quelli con cui condividiamo il mondo.

Sappiamo che una guerra è cosa assai difficile da fermare perché ci sono ragioni e torti che è complicato sciogliere. Ma sappiamo pure che la guerra è sempre paura, dolore, morte, fame, malattie e profonde ingiustizie per la violenza che scatena.

Caro Presidente, a nome anche nostro, La preghiamo di fare quanto è in suo potere per fermare il conflitto in atto. Siamo con Lei convinti che sia necessaria da subito una tregua per permettere alle persone di stare nelle loro case ed ai soldati dell’una e dell’altra parte di non spararsi contro.

Alla fine di questa nostra comune lettera Le auguriamo di poter contribuire a costruire anche per noi un mondo pacifico, dove le frontiere possano trasformarsi in balconi fioriti da dove salutare i vicini dirimpettai.

Calorosi Saluti, La Comunità terapeutica Aquilone di Solopaca.

Il pensiero/azione di Psichiatria Democratica: il “fare squadra a Telese Terme” per il disagio giovanile post pandemico (Salvatore Di Fede)

Il gruppo sannita di Psichiatria Democratica, nelle persone dei soci che hanno le competenze di Psicologi e Psicoterapeuti, ha aderito al Tavolo di confronto istituito tra Amministrazione di Telese (Sindaco Giovanni Caporaso) e la Curia Vescovile di Cerreto-Telese-Sant’Agata (Mons.Giuseppe Mazzafaro) per elaborare risposte concrete, a partire da un confronto cittadino, ai problemi aperti dal disagio giovanile e dalla preoccupazione, talvolta impotente, delle loro famiglie, che attraverso episodi di risse, bullismi e aumento del consumo di sostanze da abuso, ha acuito i già preoccupanti esiti della crisi pandemica che anche nel territorio telesino si è peraltro caratterizzata per un contesto sociale di relazioni/non relazioni interpersonali e sociali. “Il fare squadra” proposto da Mons. Mazzafaro è l’invito raccolto dai soci della nostra associazione che come noto è da tempo impegnata nel contribuire a costruire percorsi ed esperienze di salute mentale nelle comunità. rifuggendo, ma non rinunciando nelle valenze più utili, al ruolo di tecnici della mente, rilanciando invece la pratica di “sporcarsi le mani” nei problemi che concretamente hanno necessità di essere prima attivamente raccolti e ascoltati e poi, con tutti i soggetti investiti dal problema, là dove possibile, portati a soluzione. La grande esperienza del Vescovo e del Parroco di Telese in tema non solo di analisi del fenomeno sociale in essere. ma anche di motivare risorse umane peraltro già attive nell’ambito cittadino e la capacità organizzativa e di sostegno operativo del Sindaco di Telese, credo davvero potranno fare di questo incontro tra noi tutti, un’esperienza importante e pilota nell’affrontamento più corretto di quanto accade tra i giovanissimi. Psichiatria Democratica farà la sua parte con un apporto gratuito e settimanale (mercoledì pomeriggio e sabato mattina) offrendo uno spazio di colloquio con famiglie e singoli e quanti ne avranno necessità, soprattutto con chi non può permettersi percorsi di psicoterapia o di sostegno psicologico per condizioni economiche di svantaggio.

Napoli e i senza fissa dimora: perché vanno chiusi i dormitori – intervista a Emilio Lupo su “Il Mattino”

E’ possibile leggere qui l’intervista a Emilio Lupo sul problema dei senza fissa dimora in città.

Bonus psicologi. La vera posta in gioco è tra un mercato libero della psicologia o un grande piano pubblico per le cure psicologiche

Per leggere l’articolo del presidente Antonello d’Elia su quotidianosanita.it, fare clic qui

L’aiuto psicologico che non arriverà (Antonello d’Elia)

Il cosiddetto Bonus Psicologi non entrerà nel PNRR come auspicato da chi l’aveva promosso e inseguito. Una buona notizia per alcuni, un’occasione mancata sostengono altri. Dichiaro subito di essere tra i primi, ma vediamo di cosa si tratta.

L’emergenza Covid costituisce una fantastica occasione per tanti, non ultimi gli psicologi cioè coloro che praticano la cura psicologica (che non è “la psicologia” e basta). A dire il vero una legge del 1989 aveva regolamentato la pratica della psicoterapia e previsto che un laureato in Psicologia non fosse abilitato all’esercizio della professione se non dopo aver conseguito un diploma di specializzazione quadriennale. Tacerò sul fatto che ai medici che praticano la psicoterapia non è richiesta alcuna formazione specifica perché, se psichiatri, per grazia corporativa, sarebbero psicoterapeuti. Ma tant’è… Il Bonus, come era stato concepito, non prevedeva alcuna distinzione tra psicologi generici o psicoterapeuti specializzati che diventano pari. Tanto si può sempre imparare qualcosa con corsi brevi la cui offerta è diventata sterminata negli ultimi mesi.

Le emergenze, si diceva, sono grandi occasioni per costruire un futuro non emergenziale: il provvedimento, se approvato, avrebbe consentito a una moltitudine di laureati di lavorare in campo psicologico. Quale migliore circostanza di una pandemia virale pubblicizzata come pandemia anche psichiatrica, con supposti aumenti vertiginosi di diagnosi di depressione, ansia, panico, tentativi di suicidio. Forse che non servirebbe qualcuno in grado di ascoltare, evitare troppi farmaci, aiutare ad elaborare i complessi vissuti, individuali e collettivi con cui tutti siamo tuttora confrontati? Certo: l’introduzione del Bonus avrebbe permesso l’accesso a ipotetiche cure per tutti coloro che ne sentano il bisogno: coppie litigiose o violente, single ansiosi, anziani, vecchi e non dimentichiamo anche i bambini, costretti a DAD e altre vessazioni varie che potrebbero trarne qualche beneficio.

Se a scadenza e il professionista non è professionalmente addestrato, una buona parola e un consiglio ben dato saranno pur sempre meglio di niente! Poi chi avesse voluto e potuto avrebbe proseguito da solo, accollandosi le spesa. Questo scenario, per ora sventato, non contempla uno Stato premuroso che prende a cuore la psiche dei suoi cittadini ma propone un presidio provvisorio per comportamenti anomali e apre un mercato per l’eccesso di laureati sottoccupati o francamente disoccupati che la nostra università ha licenziato negli anni a ritmi forsennati. Uno Stato che dice di occuparsi della salute attraverso l’accesso alle cure psicologiche ma, di fatto, ne impoverisce e svaluta il senso e autorizza una liberalizzazione della pratica e della professione.

Qualcuno forse ancora ricorda che un tempo non tanto lontano, invece, una rete di centri di salute mentale diffusa nel paese esisteva e molti psicoterapeuti vi lavoravano tutti i giorni offrendo risposte a domande emergenti o aiutando le persone a comprendere meglio cosa stavano chiedendo e di cosa avevano bisogno. Esisteva anche la psicologia scolastica che consentiva un accesso al mondo complesso dell’infanzia quando la complessità era troppa. C’erano persino i consultori familiari territoriali dove psicologi formati potevano aiutare mamme e padri in difficoltà. E questo perché qualcuno, da legislatore, aveva pensato in termini di comunità, di società e non di mercato. Ma, si sa, il tempo passa.

Un’alternativa, tuttavia, sarebbe possibile. In piena pandemia ci si è resi conto che non sono da moltiplicare le diagnosi psichiatriche ma le occasioni di ascolto, confronto ed elaborazione. A scuola, per esempio, di fronte alle mille confusioni, sarebbe possibile dare parole all’inquietudine e allo smarrimento, anche online se il caso. Certo servirebbe che si sappia abbastanza di bambini, di adolescenti e di dinamiche di gruppo e che si faccia un buon lavoro sia con gli scolari che con i loro insegnanti, gente che sappia di psicologia di comunità e non di catastrofi. E poi ci sono gli anziani e i vecchi in RSA, spaventati e soli: ma anche qui avremmo la possibilità di avvalerci di personale per gestire gli stati di maggior sofferenza, innanzitutto socializzandoli e non trattando solo i singoli individui.

E ci sarebbero tempo e orecchie addestrate per i lutti delle famiglie che hanno perso i loro cari. Anche i cosiddetti operatori, non esenti da prove psicologiche estreme, come i medici e gli infermieri che lavorano e vivono ogni giorno a contatto con la morte da COVID avrebbero bravi psicologi assunti dagli ospedali o dalle RSA che si incarichino di disintossicare il personale dall’esposizione prolungata con la morte, contagiosa quanto un virus ma dagli effetti ancora più insidiosi. Persino sui media qualcuno userebbe le competenze di seri professionisti della psicologia della comunicazione in grado di contenere le più appariscenti derive di una stampa o di una TV sensazionalista.

Per non parlare del patrimonio di servizi pubblici territoriali, che verrebbero finalmente ripopolati con professionisti competenti, supervisionati, che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. Un grande piano non corporativo di psicologia sociale per una società in affanno che farebbe lavorare legioni di giovani psicoterapeuti. C’è qualcuno, infatti, che pensa che una democrazia avanzata non necessita solo di equità e giustizia sociale ma anche di una decente alfabetizzazione dell’anima (si, dell’anima e non del cervello). Ci vorrebbe qualcuno che abbia a cuore la psicologia come disciplina della salute, della riparazione e della relazione, umana e professionale. E politici che ritengano che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli saranno e sono anche migliori cittadini.

Insomma, se il Bonus appena bocciato rischia di tornare prima o poi in qualche altra versione, un’alternativa meno avvilente per la psicologia, la psicoterapia e gli psicologi sarebbe possibile.
Quale scenario preferite? Per quale opzione sareste disposti a battervi?

Lettera aperta al Sindaco di Napoli (Emilio Lupo)

 

Riportiamo di seguito in allegato il testo integrale della lettera aperta che il dott. Emilio Lupo. Resp, Nazionale dell’Organizzazione di Psichiatria Democratica ha inviato al Sindaco di Napoli, Prof. Gaetano Manfredi, nella quale avanza una serie di articolate proposte sul destino dell’area dell’ex manicomio L. Bianchi di Napoli.

Allegato:

La Lettera Aperta al Sindaco di Napoli prof. Gaetano Manfredi

 

Due sciagure non giustificano la morte di un uomo (Antonello d’Elia)

La morte del giovane uomo tunisino Abdel Latif riporta drammaticamente l’attenzione su situazioni di violenza e cause di sofferenza psichica e fisica che sempre più di frequente passano inosservate, dati di fatto su cui pare non valga la pena discutere. La prima riguarda le condizioni con cui uomini e donne, e spesso ragazzi e bambini, affrontano un percorso migratorio rischioso, insidioso pieno di pericoli. Che sia il mare nostrum o i boschi polacchi le migliaia di persone che tentano di varcare la soglia d’Europa incontrano respingimenti, maltrattamenti, violenza inflitta o gratuita che tradisce il rifiuto razzista di riconoscere quali esseri umani coloro le cui esistenze, la cui storia, le cui ragioni sono appiattite nella nuova condizione del migrante. Condizione che, oltre a cancellarli come soggetti di diritto e come appartenenti al consesso sociale, diventa oggetto di accanimento politico, di strumento di lotta fra stati, di aggressione istituzionale e personale. Non è umano viaggiare su imbarcazioni precarie né dormire nei gelidi boschi del nordeuropa, e non è umano, per coloro che a questa prova sopravvivono e riescono in qualche modo a varcare la soglia, essere rinchiusi, concentrati in luoghi di sospensione, di attesa, spazi liminari in cui vengono detenuti senza titolo, ambiguamente trattenuti per un inedito reato, quello di voler vivere, sfuggire alla miseria, alla violenza inflitta da altri esseri umani. Abdul Latif aveva dovuto sopportare un ulteriore tappa del suo percorso sostando per giorni su una nave quarantena, perché la pandemia da COVID19 comporta anche questo, prima di giungere nel CPR di Ponte Galeria. Aveva problemi psichici, si è scritto. Come se, per una sorta di malinteso darwinismo, sopportare promiscuità, maltrattamento, anche il ‘semplice’ abbandono, fosse un requisito necessario per accostarsi al territorio nazionale. Per chi dovesse patire tutto ciò e dar segni di cedimento c’è sempre una diagnosi psichiatrica per confinare una sofferenza umana in una categoria medica che ne distilla il comportamento, ne circoscrive l’indocilità e disattiva la ribellione. Alla violenza del viaggio, a quella della limitazione forzata del CPR si unisce allora quella della psichiatria istituzionale. Si intuisce, leggendo la stampa, che, a morte avvenuta, si tratti ora di rimpallare responsabilità tra chi dice che prima di essere affidato alla psichiatria non era malato, era affabile e sorridente e che solo un ‘inspiegabile’ circostanza avrebbe scatenato un comportamento meritevole di ricovero, e gli ospedali in cui è giunto. I familiari parlano di una telefonata in cui Abdel dice di percosse, ma ci si può fidare delle famiglie? Il consulente intervenuto al CPR avrebbe concluso che in un luogo di vere cure avrebbe potuto essere appropriatamente trattato. Ricovero e diagnosi si fanno in ospedale, come se solo raffinati specialisti possano esercitare la loro scientifica competenza su un giovane uomo sofferente, di sicuro insofferente per vicende che forse qualcuno avrebbe potuto ascoltare prima che ricoverare, rinchiudere, sedare farmacologicamente e legare a un letto. Si sa, la psichiatria è arte medica che si avvale di raffinatezze scientifiche quali le fasce di contenzione con fermi magnetici per mani e piedi da fissare al bordo del letto, e non si può arrestare il corso della medicina. Da un ospedale a un altro per fare diagnosi psichiatrica: che sofisticata procedura! Fatto sta che il giovane è morto, e come giustamente nota con sarcasmo Manconi su la Repubblica, è morto a causa del cuore che si è fermato, come se ci fossero morti con il cuore che batte… Interrogati i medici diranno che non era chiara la diagnosi, che il giovane era violento, aggressivo e per la sua tutela andava messo in sicurezza (è così che si dice, lo sapevate?). Forse diranno che non era prevedibile che i farmaci somministrati possano avere effetti avversi fino all’esito mortale, eppure certe cose ci vengono insegnate, ribadite in ottimi convegni sponsorizzati dalle stesse case farmaceutiche che quei farmaci producono e commercializzano.

Alla prima sciagurata violenza istituzionale di un CPR, snodo di un sistema di accoglienza che non accoglie nessuno, non produce reimpatri, non ascolta nessuno, non tollera comportamenti meno che sottomessi, si è aggiunta quella di un ospedale che non cura e tratta la sofferenza come una trasgressione da punire. E così una giovane vita è finita, in silenzio, in una stanza di un reparto psichiatrico. È bene che il garante si sia interessato di questa vicenda che, purtroppo, ne segue altre, troppe, che vedono protagonisti involontari persone in difficoltà che subiscono inermi i reati contro la persona che un sistema psichiatrico loro infligge e che in queste circostanze muoiono. Ma è bene anche che questa storia non rimanga tra le aule di un tribunale e che si sollevi finalmente il velo su pratiche quotidiane che violano il codice penale, quello deontologico, e la legge morale. E che questo avvenga in nome di una disciplina medica che alla scienza si appella richiede una mobilitazione collettiva di coscienze, persone, associazioni. Psichiatria Democratica, che è sempre stata in prima linea contro la contenzione e la deriva istituzionale della psichiatria, farà come sempre la sua parte.

 

Antonello d’Elia

Presidente di Psichiatria Democratica

La lezione di Riace (Antonello d’Elia)

La vicenda di Mimmo Lucano sta animando in questi giorni dibattiti e cuori. La partecipazione emotiva, ideale e politica al suo operato nei confronti sia dei rifugiati che dei suoi concittadini ci coinvolge almeno quanto ci sdegna l’esito giudiziario del processo intentato a lui e alle altre persone coinvolte nel cosiddetto modello Riace: una pena enorme, sia per i capi d’accusa, sia rispetto ai fini e ai risultati umani delle azioni di cui tutti sono stati accusati. Come non essere d’accordo con il concetto di «inversione morale» espresso da Ezio Mauro anni addietro a proposito dell’attacco alle Ong da parte del governo di allora, quando venne introdotto il reato umanitario, ovvero un crimine da eccesso di umanità commesso per salvare vite senza tenere conto della ragion di Stato. Non per nulla in questi giorni vengono chiamati in causa Antigone e il conflitto tragico tra la pietas e la polis, tra la sepoltura di Polinice e la legge di Creonte. Può un sindaco, un amministratore, forzare le leggi dello stato se inique oppure incoerenti rispetto a quelle della convivenza umana, che ricavano la loro forza dal rispetto per l’altro, dalla protezione nei confronti dei fragili, dei miseri, dei perseguitati, degli abbandonati? Tutti principi morali che non sono scritti come tali nei codici ma che ne innervano lo spirito, almeno nella tradizione giuridica e filosofica che abbiamo ereditato ma che sembra andarci sempre più stretta. Morale, appunto, si chiamerebbe questa ostica materia.

Si può obiettare che una cosa sono le intenzioni e i risultati e altro i mezzi adottati per conseguirli. Che la ragione amministrativa e gestionale ha una sua razionalità garantita da norme e leggi che non può essere piegata rispetto ad uno stato d’eccezione deciso da un singolo attore sociale e non dallo stato, unico potere sovrano a cui è dato decretare la sospensione dell’ordinario e l’introduzione dell’eccezionale. Gli argomenti non mancano per sanzionare chi quelle leggi avrebbe violato. Nel caso del sindaco Lucano (si badi, non di Mimmo Lucano) tuttavia si è andati oltre perché le motivazioni che hanno dato luogo alla sentenza non rimandano a reati amministrativi ma a una associazione a delinquere finalizzata alla distrazione di fondi e al loro utilizzo per fini altri rispetto a quelli per cui erano stanziati. Tutto questo in terra di Calabria in cui l’ingiuria quotidiana della criminalità organizzata ha soppiantato la presenza dello stato, ha deformato la convivenza civile, ha danneggiato fino all’inverosimile una popolazione sottomessa, paralizzata, ricattata e, a volte, complice anche attraverso le classi dirigenti che ha prodotto nei decenni. Come a dire che non vi è alcuna differenza tra un viadotto costato troppi milioni di euro, una Azienda Sanitaria Locale incapace di produrre salute ma efficacissima nel garantire potere e distribuire denaro pubblico a pochi soggetti e un sistema di accoglienza dei migranti (inviati peraltro dal sistema centrale CAS e Sprar/Siproimi) che ha permesso a centinaia di esseri umani di sottrarsi all’abbandono, allo sfruttamento criminale, alla fame, alla esclusione radicale da qualsiasi rete sociale ed umana sana. A poco vale che dai reati sia stato espunto quello del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, quella trappola giuridica, partorita da un governo che aveva fatto della paura un instrumentum regni, e che incatena migliaia di esseri umani arrivati nel nostro paese a un destino di (finte) espulsioni e alla certezza di un limbo sociale e umano trasformato in reato la cui unica pena è quella di non lavorare, non abitare, non vivere. Nei fatti è la dimensione territoriale di inclusione che è stata messa all’indice, e con esso quanto il sistema Riace ha assicurato alla maggior parte di coloro che vi venivano inseriti su preciso mandato di un apparato dello stato.

Alcuni reati sono stati commessi, in diversi casi la legge è stata forzata: di questo il sindaco ha non solo ammesso l’esistenza ma ha ‘osato’ rivendicare la consapevolezza di aver agito in nome di una disubbidienza civile, attività consentita a pochi sparuti personaggi nella storia italiana a cavallo tra i due secoli, che hanno meritato fama d’eroi civili (qualcuno, forse ha ancora memoria di Danilo Dolci e di don Milani…) e non altro, avvalorando nella loro eccezione una drammatica propensione al conformismo di gran parte del paese. Ma è permesso a un sindaco, a un rappresentante eletto del potere, disubbidire? È questo probabilmente il vero reato di cui è accusato Lucano, capo della cupola dell’inclusione civile e sociale di Riace. Aver eretto a sistema, ed averlo sfacciatamente pubblicizzato, un modo di dare senso ad esistenze schiacciate da un ingiusto e disumano apparato che di accogliente non ha nulla, ubbidendo peraltro  a direttive e favori chiestigli dagli organi statali centrali (“Chiedete a Lucano, lui prende tutti” pare che sollecitassero da Roma quando nella Lombardia, ricca di denaro e di intolleranza, le porte erano chiuse) e facendo ‘pagare’ questa disponibilità con una risposta organizzata, efficace nel far sentire di nuovo esseri umani corpi altrimenti sballottati dalla storia e sottoposti alla violenza sistematica di altri umani, anche se ottenuta non rispettando le regole e le procedure. Un modello, tuttavia, che per i suoi risultati è stato apprezzato fuori dai nostri confini (“nemo profeta…”) ed in grado persino di far lavorare e guadagnare italiani condannati anch’essi da tempo alla marginalità, destino della parte più derelitta del nostro Sud. Non un’isola felice e probabilmente neppure esente da qualche abuso, magari figlio non tanto del familismo quanto della disabitudine, storicamente determinata, a lavorare e produrre in modo chiaro, lecito, legale. Ma pur sempre un’isola in un continente di egoismi ed abbandoni.

L’approccio all’accoglienza di Riace, peraltro, non è tanto diverso da quanto tutti i giorni avviene, nel silenzio assenso delle istituzioni: lo storno degli assegni giornalieri di cui solo una parte viene elargita agli ‘ospiti’ migranti dei CAS, non è esclusiva invenzione del sindaco del paesino calabrese, ma sicura fonte di introito per fior di organismi accreditati che gestiscono grandi contenitori per anime morte in cui, con coloniale paternalismo, si tengono vincolati uomini e donne in attesa che spariscano alla vista, magari partendo per altri paesi dove cercare vere opportunità di vita. Fatti noti, e non valga la replica tartufesca che finché non c’è avviso di reato non c’è indagine e non c’è reato! Oppure, visto che si parla di appalti e di cooperative sociali finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, in quanti conoscono le distorsioni dei meccanismi degli appalti che non garantiscono alle stesse, nelle realtà territoriali in cui operano, di vedere legittimato il loro valore sociale ed inclusivo e si vedono invece assimilate a grandi cartelli industriali nazionali in nome della trasparenza del mercato? Che Davide vinca su Golia in queste condizioni è di fatto impossibile. In quanti credono davvero che il libero mercato sia la cura per il defunto Welfare? In troppi se ne mostrano convinti: anzi, nella retorica onnipresente ed asfissiante della ‘virtuosa’ compresenza di pubblico e privato, la maggior parte dei decisori politici e dei controllori amministrativi operano sostenuti da questa non disinteressata certezza.

In altre parole, il sistema Riace ha messo a nudo gli snodi drammatici di un più ampio sistema di governo e di attribuzione di denaro pubblico e lavoro che prospera nella comune, diffusa, cecità.

Un’ultima notazione riguarda un antico dilemma: se modificare lo stato delle cose insoddisfacente dal suo interno o dall’esterno. L’esperienza della psichiatria italiana ha mostrato come un sistema violento, concentrazionario e impermeabile a qualsivoglia intento curativo è cambiato con una legge grazie a una minoranza, che si è avvalsa tuttavia di un ampio consenso civile, culturale, sociale per sovvertire una situazione che non era solo incivile ma iniqua e indifferente ai diritti umani e civili. Era il 1978 e a promuovere quella riforma fu un movimento che si riconobbe nell’essere antiistituzionale e non antipsichiatrico. Fu un modo di abbinare disubbidienza e coerenza e dare legittimità a quanto eccedeva gli interessi e le prassi di una disciplina medica avvilita e culturalmente inconsistente. Non fu opera di un solo uomo quella legge ma di un movimento di persone, uomini e donne, che aumentò nel tempo la sua capacità di convincimento ed ottenne un appoggio ideale, pratico, politico, sociale. Una lezione che la storia degli ultimi decenni ci ha trasmesso. Non lasciamo allora solo il sindaco Mimmo Lucano, contribuiamo a mettere i riflettori sulle drammatiche contraddizioni del sistema dell’accoglienza, sull’esigenza di assicurare dignità e diritti di soggetti a coloro che arrivano nel nostro paese sospinti e spesso vomitati dalla storia. E facciamolo con la pazienza e la certezza che agire bene e per il bene non subirà la stessa sorte per ora riservata a chi ha disubbidito ad alcune leggi dello stato per contemperarle con quelle degli dei.