Che cos’è la psicologia? Infanzia, adolescenza ed età adulta. Quale cura?

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Una Rems ad Arezzo, il Centro Basaglia: “Non è questa la soluzione”

La legge 180 ha 45 anni (Antonello D’Elia)

Non è un anniversario qualsiasi questo dei 45 anni dall’approvazione della legge 180. Oggi non è concesso far ricorso a quel tanto di retorica che accompagna sempre le celebrazioni: la recente morte della dottoressa Barbara Capovani a Pisa e il clima diffuso di allarme che ne è derivato stanno dando uno impulso a tutti coloro che auspicano una revisione legislativa. È possibile che si crei una saldatura tra una psichiatria istituzionale e accademica di stampo medico e organicista e alcuni dei partiti che compongono l’attuale coalizione di governo, che del tema della sicurezza hanno da sempre fatto il loro cavallo di battaglia: l’equazione follia-violenza ripropone, alla ricerca di consensi e conferme, soluzioni reclusive, repressive, pretestuosamente preventive. Con buona pace delle evidenze, per altri versi citate e invocate. Non tutta la psichiatria è su queste posizioni così schierate ma la confusione è grande. Il tema su cui tutti concordano è quello delle risorse umane, dell’impoverimento numerico che ha trasformato le reti territoriali in scarni avamposti in cui pochi operatori in affanno si trovano a contrastare una pressione della domanda che è diventata ingestibile. E, come sappiamo, la domanda non è solo di trattamento ma anche di contenimento sociale, di controllo, di segregazione e proviene da istituzioni locali e statali, organi di polizia, magistratura. Bene ha detto chi ha identificato in questa dimensione sociale, ovvero non medica, tuttalpiù sanitaria, il terreno su cui è indispensabile intervenire. Non per rivedere una legge che nulla dice direttamente a proposito degli autori di reato con problematiche psichiatriche, palesi o occulte, ma per trovare soluzioni a quel processo avviato con la chiusura degli OPG e impantanatosi nel pasticcio delle REMS con misure di sicurezza preventive, sospese, mancate o mal poste in essere. Psichiatria e Giustizia, dunque. È lì lo snodo che dovranno affrontare gli psichiatri non accecati da un miope riscatto antibasagliano e i magistrati, costretti a un imbarazzante ruolo di smistamento di persone che hanno commesso crimini di varia entità e che, per il solo fatto di avere ricevuto una diagnosi psichiatrica, vagano in una zona grigia in cui né il carcere né i ricoveri in psichiatria appaiono adatti tanto a trattare che a reprimere. Ad essi ovviamente si deve affiancare la politica, quella interessata ad affrontare i problemi e non solo a ricavarne, opportunisticamente, effimeri consensi. D’altra parte è questa la via da sempre battuta e concretamente sostenuta da Psichiatria Democratica, valga su tutti la promozione dei Protocolli Operativi per l’attuazione della Misure di Sicurezza che, pur se licenziati dal CSM, se non accompagnati da un processo di formazione, messa alla prova, accumulo e confronto di esperienze e verifica nell’approccio ai singoli casi, non potrà mai produrre nessuno dei risultati sperati. Sopra tutto poi l’urgenza di rivedere per legge gli articoli 88 e 89 del Codice Penale e affrontare finalmente la questione dell’imputabilità. Come si vede, la psichiatria o è sociale o non è, come andiamo sostenendo non da ieri e non solo noi.

Per coloro che sembrano appassionati dall’idea di riformare la riforma del 1978 a causa di nuove patologie che si sarebbero palesate negli ultimi decenni proporrei di mettere al centro un quesito cruciale: i Dipartimenti di Salute Mentale sono in grado di CURARE? Di mettere al centro della loro azione la sofferenza umana che ha cambiato linguaggi e contesti di espressione ma che non è mutata più di tanto? Hanno cioè consapevolezza che la “cura” in salute mentale è il risultato di azioni complesse, un “bene comune”, esito di processi che risultano nel “prendersi cura” che non può esaurirsi in atti di somministrazione di farmaci o di psicoterapie, figuriamoci poi nell’assicurare un posto letto di comunità o di ospedale a cui, nel caso, tenere legata una persona? Curare vuol dire sapere usare i farmaci in modo oculato e sapiente, tenendo conto del bilanciamento tra effetti desiderati e indesiderati e dell’esperienza di chi quei farmaci assume. Significa avere fiducia nella parola di chi soffre, costruire relazioni improntate al rispetto perché solo attraverso quello possono agire gli atti terapeutici messi in atto. Vuol dire, ancora, contrastare quelle relazioni che trasformano una persona in un oggetto, dal livello sociale del riconoscimento dei suoi diritti a quello relazionale delle fragilità identitarie che si inseriscono nelle storie familiari e affiorano nelle pieghe oscure della mente individuale. Vuol dire negoziare e non imporre, trovare vie mediane per sollevare chi soffre dalla chiusura in se stesso, principale sintomo di sofferenza mentale. Ma tutto questo non basta né può essere competenza di medici, psicologi e infermieri. Altre figure professionali, altri specialismi, altri soggetti del sociale sono in causa. È necessario assicurare e supportare un abitare degno, un lavoro vero e decoroso, fonte di sostegno non solo materiale per tutti e non solo per i pazienti; valorizzare le competenze e non concentrarsi sulle defettualità; avere presa su tutte quelle determinanti sociali dell’esistenza che in apparenza non hanno a che fare con la salute ma che invece la condizionano e determinano; avere sempre presenti i contesti, le comunità come risorsa cruciale; supportare la socialità, lo scambio relazionale, materiale e simbolico. Per far questo sono necessarie politiche sanitarie e socio-asssitenziali a cui amministratori e decisori istituzionali e  politici non possono sottrarsi se non per un’ipocrita delega ad operatori sempre più soli anch’essi.

Non sono questioni da poco perché chiamano in causa anche chi e come insegnare a curare.

In un’epoca in cui farsi carico, dubitare, prendersi dei rischi, criticare, sono verbi messi al bando, la trasmissione di un’eredità fatta di pratiche e teorie della cura derivate da quella legge approvata il 13 maggio del 1978 è più che mai viva e necessaria.

Il lutto per la psichiatra Barbara Capovani ( di Antonello D’Elia)

Un uomo incappucciato aggredisce all’uscita dal suo posto di lavoro una dottoressa. Barbara Capovani viene colpita con ferocia al capo con una pesante sbarra e cade tramortita. Soccorsa, le sue condizioni sono disperanti. Poche ore dopo si darà avvio alle procedure per dichiararne la morte cerebrale e per consentire, secondo i desideri della donna, all’espianto degli organi che trasformerà un corpo giovane e vitale in un serbatoio di organi da donare a potenziali beneficiari. Una storia orribile che vede una psichiatra vittima della mente ossessionata e contorta di un uomo che ha deciso e messo in atto una misteriosa quanto letale vendetta. Questo è quanto raccontano le cronache. Un delitto inquietante, un assassinio premeditato e spietato che colpisce un medico per il solo fatto di essere entrato nel corso del suo lavoro quotidiano nella testa di un uomo che ne ha deciso la sorte pianificando un’aggressione di inaudita violenza, fredda e micidiale. Non possiamo che rabbrividire immaginando l’orrore della scena e compiangere una collega la cui unica colpa è di aver incrociato la vita di un essere esibizionista e disturbato, immerso in una bolla onnipotente e grandiosa che lo ha portato ad attribuirsi doti sciamaniche. Gianluca Paul Seung sarà giudicato per quel che ha fatto e ne sconterà, ci auguriamo, la pena adeguata a una combinazione micidiale di perversione e violenza: a prescindere dalla sua condizione psichica e dal suo passato. Che cosa fa di una persona così complessa un paziente psichiatrico? Il solo fatto di essere stato ricoverato in passato in un reparto psichiatrico dove ha avuto la ventura di incrociare la dottoressa Capovani e di averle attribuito, come viene da supporre, una responsabilità nell’essere
considerato un malato e non un essere superiore? Basta questo per farlo diventare oggetto di un monitoraggio stretto da parte di un servizio psichiatrico? O per additare o lamentarne l’assenza? Cosa fa della psichiatria e dei suoi operatori gli agenti di provvedimenti di controllo o almeno di contenimento di tortuosi itinerari psichici capaci di trasformare una persona, come la collega Capovani, in una cosa, in un agente inumano di una persecuzione su cui rivalersi per compensare l’offesa ricevuta? È presto dirlo, non sappiamo abbastanza e, seppure sapessimo, non potremmo che sospendere i nostri pensieri di fronte alla morte ingiusta di un medico che ha avuto l’inconsapevole sventura di diventare un fantasma nella mente di qualcuno che ha conosciuto nel corso del suo lavoro e che le ha attribuito colpe tali da doverle lavare col sangue, da meritare il suo annientamento. Ci saranno psichiatri che saranno chiamati a pronunciarsi sui tortuosi percorsi mentali del Seung, e questo è giusto. Quello che non ci sembra giusto è trasformare il corpo ancora caldo della dottoressa Capovani nel testimonial di tesi ideologiche, di richieste di aumento di posti letto, magari in REMS, per evitare che fatti come quello avvenuto a Pisa si ripetano. Chiariamoci: la psichiatria istituzionale ha un improcrastinabile bisogno di risorse umane in assenza della quali scompare come disciplina e, non dimentichiamolo, non vi è specializzazione medica che condivide questa sorte. La psichiatria o è dotata di personale qualificato o si trasforma in burocratica gestione di terapie farmacologiche e di posti letto. Ben venga la solidarietà e la proposta di rispettoso silenzio luttoso per la collega da parte di tutti coloro che, ogni giorno, in prima linea si confrontano con la sofferenza umana, consapevoli che non tutto quel male è noto, che non tutto è comprensibile, che non tutto è trattabile e che sofferenza e violenza non sono una combinazione ineluttabile nella mente umana. E che, inoltre, non basta aver ricoverato o visitato qualcuno qualche volta per diventarne il custode psichico e fisico, responsabile per quel che fa e che farà. Per ora, in attesa di conoscere di più, rimaniamo sobri, stringiamoci alla famiglia di Barbara Capovani e rispettiamone il dolore. La morte di un essere umano lo richiede e l’etica lo impone.

Roma, 23 aprile 2023

Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica

Dialoghi sulla clinica contemporanea – Napoli, 13 e 14 maggio 2023

La scomparsa di Franco Rotelli

La storia della psichiatria italiana del dopo Basaglia è stata travagliata ma, nel suo complesso, ha visto per decenni l’affermarsi di pratiche e di esperienze avanzate di valorizzazione delle persone e delle loro risorse, di affermazione di diritti e di allargamento degli spazi di vita e di salute tempo addietro impensabili. A questi sviluppi hanno apportato il loro contributo, così come era avvenuto prima della legge, persone, équipe, operatori, cittadini, pazienti e famiglie in molti luoghi d’Italia. La morte di Franco Rotelli, come era avvenuto per quella di Agostino Pirella sei anni orsono, rappresenta l’uscita di scena di testimoni decisivi, una perdita per tutti coloro, noi per primi, che di una psichiatria dei diritti e delle persone hanno fatto una ragione di vita, di professione, di impegno e di militanza. Rotelli ha rappresentato con il suo percorso un passaggio dalla dimensione clinica e sociale di una psichiatria del manicomio e del post-manicomio a quella delle aziende sanitarie, legando la sua competenza professionale a quella politica alla consapevolezza che il filo tra salute mentale e scelte politiche deve essere saldato e costantemente annodato per mantenere i valori e l’efficacia delle pratiche. Lo abbiamo imparato nel tempo pagandone anche il prezzo nel momento in cui, come avvenuto di recente nella sua Trieste, il quadro politico è mutato rischiando di travolgere decenni di lavoro e con essi migliaia di vite riscattate e restituite alla loro ricchezza e complessità umana. Molti ricorderanno il Rotelli triestino, ma c’è anche quello che ha contribuito alla denuncia e allo smantellamento di manicomi non solo italiani, si pensi a Leros, e che ha accompagnato con scritti impeccabili anche il processo di chiusura degli OPG che ha visto anche noi di Psichiatria Democratica partecipi e in prima linea. Sono tempi difficili questi, in cui quell’articolazione di pratiche e politiche patisce scelte partitiche di evidente involuzione pratica e culturale, in cui i princìpi costituzionali sono piegati o assunti a vago orientamento e non a fondamento ispirativo, in cui le basi universali ed accessibili del Servizio Sanitario Nazionale pubblico sono minate ogni istante da pressanti interessi mercantili. Anche per questo la voce di Franco Rotelli mancherà. Abbiamo inviato a firma del Direttivo Nazionale le nostre condoglianze ai familiari unendoci al loro dolore.

Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica

La scomparsa di Vanni Pecchioli

Ieri, come una valanga che ti coglie all’improvviso, ci ha lasciato Vanni Pecchioli, da sempre compagno militante di Psichiatria Democratica (PD).

Tra sgomento e incredulità il dolore ci ha ammutoliti. Ciascuno di noi faceva fatica ad andare avanti nella conversazione perché, a rimorchio, affioravano i ricordi dei suoi interventi e delle sue analisi – durante gli attivi di PD come negli scambi interpersonali – che, talora, ti lasciavano lì a ragionare sulle prospettive da lui indicate.
Il suo lavoro di Dirigente di cooperativa era sempre e intimamente impregnato dalla sfida antica e sempre presente: rendere cogente il percorso di una salute mentale di comunità, che concretamente significasse dignità e libertà dal bisogno economico degli utenti psichiatrici impegnati nella sfida cooperativistica.

Vanni era un compagno, un collega e un amico prezioso, per la sua lealtà, per la tenacia con la quale perseguiva gli obiettivi che si era prefissato, per il rigore che gli apparteneva intimamente e che trasmetteva sicurezza nei suoi interlocutori.
Psichiatria Democratica lo piange e lo ricorda a quanti lo hanno conosciuto ed è vicina alla moglie ed alla famiglia tutta in questo momento di profondo smarrimento e dolore.

 

 

Con profonda tristezza diamo l’annuncio della scomparsa di Vanni Pecchioli, fondatore e presidente della Cooperativa Conto alla Rovescia, da più di 40 anni animatore instancabile delle lotte nell’ambito della salute mentale e compagno di strada nella lunga storia di Psichiatria Democratica.

La sua determinazione, volta sempre alla collettività e prima di tutto a coloro che sono relegati ai margini della società, non conosceva sconforto, né il suo sguardo vivace e anticipatore ha mai smesso di cercare e costruire le possibilità per un futuro migliore per tutte e tutti. Vanni, fino all’ultimo, è stato un visionario ma anche un uomo, imperfetto e cocciuto, con cui non sempre era semplice relazionarsi: affamato di vita punzecchiava le coscienze e, che avesse torto o ragione, alla fine costringeva sempre a scrollarsi di dosso il torpore e ad andare avanti verso un orizzonte comune. E forse più di tutto sarà questa testardaggine a mancare, perché ciò che lascia in eredità non sono solo le esperienze di una vita, le innumerevoli reti sociali di cui è stato la linfa o i saperi prodotti dal basso, nella pratica e nella relazione quotidiana tra operatori e persone con sofferenza mentale, ma anche un vuoto che chiede di essere riempito, interrogando tutte e tutti noi che rimaniamo in un mondo in cui è sempre più difficile orientarsi.

Ora è il tempo del dolore, del ricordo di Vanni, della sua ironia, della sua intelligenza, dei suoi occhi che vedevano lontano senza mai scomporsi, sia che guardassero negli abissi dell’animo umano che all’orizzonte che sapeva che non avrebbe mai raggiunto.

Per ricordarlo ci ritroveremo, insieme ai familiari e a tutti coloro che vorranno salutarlo, mercoledì 3 agosto alle ore 16:30 presso il Parco Insieme di Settecamini a Roma.

Il Parco è situato sulla Via Tiburtina 2 Km oltre il Grande Raccordo Anulare
accesso principale Via di Casal Bianco snc
accesso secondario Via rubellia n° 4
info 3478438406

COVID – Long COVID: lo stato dell’arte – Napoli, 7 luglio 2022

Una miniera d’oro

Vi proponiamo un articolo, chiaro e puntuale nella analisi e nelle prospettive,del Magistrato Riccardo De Vito (apparso sulla Rivista Questione Giustizia) a commento della relazione al Parlamento  2022, del Garante nazionale dei diritti delle persone private delle libertà personali.

 

Una miniera d’oro: la Relazione al Parlamento 2022 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro